Il 21 febbraio del 2001, intorno alle 19.30, Susy Cassini torna a casa insieme al figlio Gianluca, stanco e sudato dopo una partita di basket. Quando citofonano, Erika apre la porta, e con la madre va in cucina, mentre Gianluca sale al piano superiore per fare una doccia. Tra Erika e la madre scoppia subito una discussione accesa per via dei brutti voti scolastici della ragazza. Nel trambusto, Erika sferra la prima coltellata contro di lei. Il fidanzato, Omar, nascosto in bagno, accorre in aiuto. Insieme uccidono la donna con 40 coltellate. E per evitare che i vicini sentano le urla, alzano al massimo il volume dello stereo. Intanto Gianluca scende al piano inferiore e assiste all’omicidio della madre. Erika colpisce il fratello una prima volta, poi lo porta di sopra e lo finisce con altre 56 coltellate.
Quello di Erika De Nardo e Mauro Favaro, Erika e Omar, 16 e 17 anni al momento dell’omicidio, passerà alla storia come il delitto di Novi Ligure. Un omicidio pensato, maturato e progettato nella coppia. I due adolescenti da amanti si trasformano in assassini. Prima condividono il progetto omicida insieme, poi lo mettono in pratica. Come atto d’amore per andare avanti contro tutto e tutti.
Il criminologo Ruben De Luca, analizzando oltre 2mila casi di omicidi seriali nazionali e internazionali, ha stimato che quelli commessi in coppia in Italia sono circa il 5 per cento (il 9% a livello globale). Binomi in cui la compartecipazione all’assassinio amplifica l’efferatezza, spiegano Giuseppe Pastore e Stefano Valbonesi nel libro In due si uccide meglio. Perché dalla condivisione dell’esperienza omicida, si trae maggiore eccitazione e più sicurezza.
Le coppie assassine possono essere di tipi diversi. Composte da un uomo e una donna, come Erika e Omar, Rosa e Olindo o Joseph e Claire Bebawi. Ma a uccidere possono essere anche madre e figlio, due fratelli, due amici, persino due perfetti sconosciuti che si incontrano e scoprono di avere fantasie omicide comuni. Individui già infiammabili di per sé che, in presenza di un partner, innescano reazioni violente a catena. Come Leonard Lake e Charles Ng, menti della folle “operazione Miranda”, che consisteva nel sequestrare, violentare, torturare e uccidere giovani donne. O come i coniugi Birnie, che negli anni Ottanta sconvolsero l’Australia con omicidi efferati. O ancora come i due giovani di buone famiglie veronesi, che tra gli anni Settanta e Ottanta rivendicavano gli omicidi di prostitute, senzatetto, tossicodipendenti e omosessuali con i volantini nazisti firmati Ludwig.
Binomi omicidi in cui la compartecipazione all’assassinio amplifica l’efferatezza. Perché dalla condivisione dell’esperienza omicida, si trae maggiore eccitazione e più sicurezza
«Si può uccidere in coppia per diversi motivi: odio, amore, denaro, perversione o desiderio di evasione», spiega lo psichiatra e criminologo Vincenzo Mastronardi. «Il desiderio di evasione, ad esempio, è quello che ha spinto Erika e Omar a uccidere, motivati dalla necessità di eliminare qualunque ostacolo alla loro relazione». Mastronardi lo chiama «infantilismo», cioè «la mancata evoluzione dello standard morale ed emozionale». Che non dipende dall’età, e che porta a compiere atti macabri. Come quello di infiggere 97 coltellate sulla madre e il fratello.
O anche uccidere a colpi di coltello e spranga tre donne e un bambino, apparentemente per problemi di vicinato. Come fecero a Erba nel 2006 Rosa Bazzi e il marito Olindo Romano. Che condividevano «l’odio e l’esasperazione comune verso qualcuno, i vicini di casa», spiega Mastronardi. Ma anche «la volontà di rivendicazione sociale», vivendo ormai entrambi isolati dal resto della famiglia e del mondo.
Secondo uno schema molto usato in psicologia, la cosiddetta piramide di Maslow, gli esseri umani, dopo aver soddisfatto bisogni primari come la fame, la sete, la necessità di un tetto e quella di avere amici, sentono il bisogno di stima. «Questo bisogno», spiega Mastronardi, «può essere una chiave per comprendere perché alcune coppie assassine uccidono quando la stima sociale viene meno. Persone che sono formiche e vogliono dimostrare di essere elefanti».
Si può uccidere in coppia per diversi motivi: odio, amore, denaro, perversione o desiderio di evasione
L’amore che lega i componenti della coppia assassina, dice il criminologo, «è spesso un amore malato». E l’omicidio a volte è anche l’approdo finale di una «ipersessualità distorta in cui l’erotismo psicofisico trova soddisfacimento anche altrove». Assassinio compreso. È quello che accadeva ad esempio ai coniugi Birnie: David, affetto da una sessualità insaziabile, abusava delle sue vittime prima di ucciderle, e spesso anche la moglie Catherine partecipava a quegli atti sessuali sapendo che i suoi gesti gesti avrebbero eccitato ancora di più il marito. Scene simili si ripetevano con i due serial killer americani Gerald Gallego e Charlene Williams: è lei che per riscoprire l’affiatamento sessuale di coppia pensa di fornire delle schiave sessuali per il marito, prendendo parte attiva alle orge che precedevano gli omicidi.
Ma più che di amore, «si tratta di una forma di dipendenza dall’altro, che porta alla necessità di non scontentarlo per timore di perderlo». Il ragionamento è questo: «Accontento il mio compagno in ogni cosa, anche nel percorso rivendicativo all’interno del quale si sviluppa l’atto omicida». Ecco perché uno dei due assassini delle coppia domina sempre sull’altro. È il caso di David Birnie e Gerald Gallego: i mariti ordinano, le donne eseguono. In altri casi, come Erika e Omar o Rosa e Olindo, sono le donne a dominare. «Erika mi chiedeva ossessivamente di uccidere la sua famiglia anche mentre avevamo rapporti sessuali per dimostrare di essere un vero uomo e amarla veramente», racconterà dopo la condanna Omar.
E alla fine nella coppia si crea «un rinforzo psicologico vicendevole che porta alla necessità di dover commettere l’omicidio», spiega Mastronardi. «Si incontrano due strutture diverse di personalità, dove lui o lei vuole accontentare l’altro. O dove uno dei due, più debole, fa qualcosa oltre le righe per farsi apprezzare dall’altro». David Birnie, ad esempio, chiedeva spesso alla moglie di uccidere le ragazze in nome del loro amore. E lei lo faceva senza porsi troppe domande. A volte scattando anche delle foto, per esaltare il “buon lavoro” compiuto.
Gli psichiatri la chiamano “follia a due”. Due individui, non necessariamente assassini se presi singolarmente, insieme diventano una miscela esplosiva, trovando l’uno nell’altro un complice per alimentare rabbia e fantasie assassine, senza riuscire più a fermarsi. «Non a caso in molti di questi omicidi una volta che cominciano ad accoltellare qualcuno continuano per molto», spiega Mastronardi. Novantasette coltellate totali per Erika e Omar. Coltellate, sprangate, sgozzamenti per Rosa e Olindo. «È un impulso ossessivo, una coazione a ripetere, una sorta di reazione a catena».
Gli psichiatri la chiamano “follia a due”. Due individui, non necessariamente assassini se presi singolarmente, insieme diventano una miscela esplosiva, trovando l’uno nell’altro un complice per alimentare rabbia e fantasie assassine
A scatenare la follia omicida può essere anche la gelosia legata all’amore. Nel 1964, nei pressi di via Veneto, a Roma, viene trovato il cadavere di Farouk Chourbagi, affascinante e ricchissimo imprenditore egiziano. I sospetti si concentrano sui coniugi Joseph e Claire Bebawi, con la quale Chourbagi aveva avuto una relazione. Per anni i due si accusano a vicenda, mentre il processo che li riguarda appassiona l’opinione pubblica, tra lacrime e svenimenti. Quello dei coniugi Bebawi sembra un piano perfetto, inscalfibile. Tant’è che i giudici, nonostante siano sicuri che uno dei due abbia ucciso l’imprenditore, nel dubbio li assolvono in primo grado. Verranno condannati in appello, con la conferma in Cassazione. Ma nel frattempo diventeranno irrintracciabili per la giustizia italiana: lui fugge in Svizzera, lei torna in Egitto a fare la guida turistica.
E poi ci sono gli interessi economici. Come quelli che portano la ballerina di night Katharina Miroslawa a uccidere, insieme all’ex marito, l’imprenditore Carlo Mazza nel febbraio del 1986. La ballerina era amante di Mazza, che le aveva intestato una polizza sulla vita da un miliardo di lire. Il pagamento del premio era il movente del delitto.
Un mix di interessi economici e follia, invece, è quello che spinse Leonarda Cianciulli, meglio nota come “la saponificatrice di Correggio”, a uccidere insieme al figlio, poi assolto per insufficienza di prove. «Il figlio non poteva non essere a conoscenza di quello che faceva la madre», spiega Vincenzo Mastronardi, che al caso ha dedicato un libro (Leonarda Cianciulli. La saponificatrice, scritto con Fabio Sanvitale). «La domestica della casa ci ha raccontato che un giorno lo vide con una valigia dalla quale fuoriuscivano dei capelli rossi». Erano i capelli della cantante lirica Virginia Cacioppo, una delle tre vittime? «Si era instaurato un cordone ombelicale doppio tra madre e figlio», spiega Mastronardi. «Così lui per amore l’ha aiutata a concludere il suo percorso omicida». Un percorso che prevedeva la sparizione totale dei cadaveri: i corpi delle vittime venivano fatti bollire in un pentolone pieno di soda caustica per farne sapone, mentre il sangue finiva nei biscotti.