Nei primi mesi del 2001 non c’è ancora né Facebook, né Twitter, i cellulari non fanno foto, né video, le torri gemelle sono ancora al loro posto e l’arcivescovo di Boston Bernard Francis Law pure. Anche la squadra Spotlight del Boston Globe è ancora al suo posto, in una stanza appartata, con quattro scrivanie, quattro telefoni e tanta carta per scrivere. Quei quattro giornalisti, capeggiati da Walter ‘Robby’ Robinson (Micheal Keaton) sono in quella stanza non perché siano più bravi degli altri. È solo che hanno più tempo degli altri per costruire le loro storie. E ci lavorano in team.
Il film attacca nel luglio del 2001, quando arriva un nuovo direttore, si chiama Marty Baron, è il primo direttore non cattolico della testata e non è di Boston. Una delle prime cose che fa quando ha l’occasione di parlare con Robby è parlare di Spotlight.I due sono seduti a un tavolo del ristorante del Four Season Hotel.
«A cosa state lavorando?», chiede Baron a Robby.
«Abbiamo appena pubblicato un pezzo… Stiamo cercando la prossima storia», fa Robby, il cui timore è che i nuovo direttore tagli la sua squadra di netto.
«E quanto tempo ci prende?» gli chiede Baron.
«Difficile dirlo», fa Robby, «Un paio di mesi.»
«Un paio di mesi.»
«Sì, non ci piace fare le cose in fretta. Una volta che abbiamo messo in piedi un progetto ci possiamo stare anche un anno intero.»
Il caso Spotlight un film lento, solido, preciso. Esattamente come dovrebbe essere il giornalismo che dobbiamo tornare a fare.
A quel punto Baron prende appunti e Robby si preoccupa ancora di più: «È un problema?», chiede al suo nuovo capo.
«Non per forza», gli fa Baron, «ma da quello che ho capito i lettori stanno diminuendo, internet sta riducendo la pubblicità e io credo di dover vedere le cose con occhio critico».
«Quindi prevedi altri tagli?».
«Suppongo di sì, ma quello che mi interessa di più è trovare un modo per far diventare questo giornale essenziale per i nostri lettori».Baron non ha intenzione di tagliare la squadra Spotlight. Tutto il contrario, perché la mossa successiva è metterli su una nuova pista. C’entrano dei preti cattolici e delle accuse di molestie su diversi bambini. È l’inizio del film.
In quel dialogo all’inizio c’è già tutto. C’è la centralità del tempo, c’è l’esigenza di profondità, e c’è la consapevolezza dell’urgenza da parte del giornale di tornare ad essere fondamentale nella vita dei lettori. Alla fine sono le stesse carte che si gioca Thomas McCarthy, regista del film: tempo, profondità, urgenza.
Non vincerà l’Oscar come miglior film, per quella statuetta sembrano troppo agguerriti Mad Max, Revenant e The Big Short. Ma Spotlight — Il caso Spotlight, in italiano — è un film di cui dovrebbero parlarvi i vostri figli di ritorno da scuola e la cui visione dovrebbe dare più crediti formativi ai giornalisti di una buona metà dei ridicoli corsi di aggiornamento finanziati dall’Ordine.
Spotlight, che come ha scritto bene Roberto Recchioni «è un bel film di “cosa” più che di “come”», è un film lento, solido, preciso. Esattamente come dovrebbe essere il giornalismo che dobbiamo tornare a fare.