Matteo Renzi ha forse a cuore la scuola, ma certo non ha a cuore l’università. Nel suo discorso di insediamento al Senato, il 24 febbraio 2014, disse con decisione che «la scuola è il punto di partenza», ma non nominò mai l’università (se non una volta, ma solo in «Ministero dell’istruzione pubblica e dell’università») e solo una volta pronunciò la parola «ricerca».
Nei mesi successivi, mentre l’istruzione pre-universitaria ha ricevuto molta attenzione con la riforma cosiddetta “La buona scuola” e con il piano di edilizia scolastica, il mondo universitario e della ricerca è sembrato piuttosto lontano dalle preoccupazioni – e dalla retorica – di governo. Se ne è parlato a fine 2015, con l’annuncio di alcune centinaia di assunzioni di ricercatori e la promessa del ministro Giannini di un «concorso nazionale straordinario in primavera».
Eppure, ci sono pochi altri settori in cui un paese avanzato come l’Italia avrebbe bisogno di interventi profondi e urgenti. Lo dicono i numeri. Nei grafici che seguono proviamo a metterne qualcuno in campo.
Non è un problema nuovo, certo. E le cifre delineano una diagnosi, non la cura. Per dirlo più chiaramente: se ad esempio il rimedio sul piano finanziario stia in un maggior impegno di fondi pubblici o in formule di apertura agli investimenti privati (Renzi ha parlato vagamente di un altrettanto vago «modello Boston») non è una decisione neutra, ma politica. Ma intanto bisogna aver chiare le dimensioni del problema.
1. Gli investimenti in ricerca e sviluppo
Investimenti in R&D in % del PIL (fonte: OCSE)
In un paese in cui i grandi centri di ricerca privati sono poco numerosi, la parte del leone è destinata all’università e il settore pubblico. Dopo essere addirittura diminuita negli anni Novanta, la percentuale del PIL che l’Italia dedica a ricerca e sviluppo è tornata a crescere, ma rimane intorno all’1,3 per cento, contro l’1,9 della media UE e il 2,3 di quella OCSE.
Nel suo recente libro Ascesa e declino. Storia economica d’Italia (Il Mulino, 2015), lo storico dell’economia Emanuele Felice individua proprio negli scarsi investimenti in R&D uno dei motivi del declino italiano.
2. I soldi alle università
Restando sul tema dei finanziamenti, la principale voce del bilancio pubblico che dà fondi alla ricerca, alla manutenzione ordinaria e agli stipendi delle università italiane è il Fondo di finanziamento ordinario (FFO), istituito nel 1993. Dagli anni della crisi, il FFO ha avuto una tendenza alla riduzione, con un taglio tra 2009 e 2010 di oltre 800 milioni di euro che non è stato mai pienamente recuperato. Dopo alcuni alti e bassi, tra 2014 e 2015 è calato di circa 100 milioni di euro.
3. La percentuale dei laureati
Percentuale di popolazione, età 25-34 anni, in possesso di un titolo di studio di terzo livello (fonte: OCSE)
Passiamo ora ai laureati. Anche in questa classifica siamo, notoriamente, molto in basso nelle classifiche dei paesi cosiddetti avanzati, e proprio tra i più giovani: in altre parole, negli ultimi anni non sono state messe in atto politiche in grado di colmare il divario.
4. Quanti diplomati si iscrivono all’università
L’assenza di quelle politiche si può vedere nella percentuale di diplomati che si sono successivamente iscritti all’università: dal 2008 in poi, il calo è stato netto. Secondo alcuni, la responsabilità è proprio della crisi: le famiglie non ritengono che l’investimento in educazione sia proficuo ai fini dell’occupazione. Un meccanismo che contribuisce a diminuire la mobilità sociale nel nostro paese. Il numero di immatricolati totali (cioè di studenti che, per la prima volta nella loro vita, si iscrivono a un corso di laurea) è calato nello stesso periodo di tempo da 295.518 nell’anno accademico 2008/2009 a 252.457 per l’anno accademico 2013/2014.
5. Il numero dei docenti
I soldi sono pochi, gli studenti calano nonostante i laureati siano in proporzione più bassi che altrove… e i docenti? Stanno diminuendo. Dopo il massimo storico di 62.768 tra ordinari, associati e ricercatori nel 2008, c’è stata un’inversione di tendenza e i numeri in tutte le categorie di ruolo sono cominciati a calare, fino a raggiungere quota 51.839 nel 2014. Il calo più netto è nel numero di ordinari, che erano 19.843 nel 2006 e otto anni più tardi erano scesi a 13.263 (-33%).
6. La piramide rovesciata
Se non altro, il calo del numero dei docenti sembra andare nella direzione di correggere una stortura italiana. Per una volta non parliamo del presente, insomma, ma di come sono state gestite le cose in passato. La logica vorrebbe che la struttura dei docenti universitari fosse simile a una piramide: molti ricercatori, relativamente meno associati, ancora meno professori ordinari, il grado massimo della carriera accademica. Ma le politiche di assunzione e promozione del passato hanno portato a una divisione molto diversa: per anni il numero degli ordinari è cresciuto molto di più di quello degli associati, fino addirittura a superarlo nel 2005. Questa sproporzione è durata fino al 2010.
7. L’età media dei docenti
I docenti, oltre a diminuire, sono anche sempre più anziani. Come ha scritto l’ANVUR nell’ultimo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca, pubblicato nel marzo 2014, “negli ultimi venticinque anni, il processo di innalzamento dell’età media è stato continuo ed è tuttora in corso”. L’età media dei ricercatori era di oltre 46 anni nel 2013.