«Se non verranno reperiti nuovi fondi per completare i marginamenti delle macroisole e il sistema di depurazione delle acque di falda rischiano di essere dispersi tutti gli oneri sinora sostenuti dallo Stato». La relazione sulla bonifica a Porto Marghera è drammaticamente esplicita. Come spiega la commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, nonostante l’investimento di oltre 781 milioni di euro, i lavori non sono ancora conclusi. Mancano 250 milioni per realizzare il 6 per cento di opere residue, in assenza dei quali si rischia di vanificare «il raggiungimento dell’obiettivo preposto di impedire lo sversamento nei canali lagunari delle acque provenienti dai terreni inquinati». Peccato che, confermano i parlamentari, come risulta dall’informativa inviata dal Ministero dell’Ambiente, al momento non vi sono fondi disponibili. Il risultato è impietoso. «È come se si avesse un colabrodo – spiegava l’altro giorno alla Camera Alessandro Bratti, Pd, presidente della commissione – per cui gli inquinanti, di fatto, continuano ad uscire e il sistema drenante diventa assolutamente inefficiente e inefficace».
I lavori della commissione di inchiesta sul sito di Porto Marghera sono iniziati nel 2014. Diversi mesi di studio e audizioni, un totale di 117 documenti raccolti e 4.500 pagine consultate. Lo scorso dicembre la relazione è stata approvata all’unanimità. In questi giorni è arrivata la discussione alla Camera. Al centro dell’attenzione sono finiti i lavori di bonifica di uno dei principali siti industriali del nostro Paese. Un’area inizialmente pari a 3.221 ettari di aree a terra, 350 ettari di canali portuali e 2.200 ettari di area lagunare, in seguito ridotta della metà (oggi il sito di interesse nazionale è di circa 1.620 ettari). Qui la chimica «ha lasciato delle eredità complesse con cui oggi dobbiamo fare i conti» sintetizza Bratti a Montecitorio. La lista dei contaminanti trovati nel suolo e nelle acque è ampia. Nel terreno e nelle acque di falda sono state trovate tracce di metalli, arsenico, cromo, mercurio, nichel, ma anche idrocarburi policiclici aromatici. Un inquinamento che si è protratto negli anni, principalmente dovuto a tre fattori. La ricaduta degli inquinanti immessi nell’atmosfera, le emissioni incontrollate nei terreni e nelle acque sotterranee, ma soprattutto l’impiego di rifiuti di lavorazione derivanti dalla prima zona industriale per l’avanzamento della linea di costa. «Un attacco alla terra, al mare e all’aria» come ha spiegato intervenendo alla Camera il deputato Cinque Stelle Alberto Zolezzi, tra i relatori del documento.
La lista dei contaminanti trovati nel suolo e nelle acque è ampia. Nel terreno e nelle acque di falda sono state trovate tracce di metalli, arsenico, cromo, mercurio, nichel, ma anche idrocarburi policiclici aromatici
Ad oggi lo Stato ha speso 781,635 milioni di euro. Più di cinquecento sono il frutto delle transazioni con le realtà industriali che maggiormente hanno inquinato negli anni passati. «L’operazione di messa in sicurezza – spiega Bratti – consisteva nel dividere in una serie di isole quest’area molto ampia. Queste isole venivano, di fatto, circondate attraverso delle palizzate, dei cosiddetti, tecnicamente, marginamenti, per impedire agli inquinanti di uscire in laguna. Era, poi previsto un sistema di pompaggio e di drenaggio che togliesse l’acqua dalla falda profonda e pulisse quest’acqua per poi riutilizzarla». Come spiega la relazione, il 94 per cento circa delle opere previste è già stato realizzato. Per completare i lavori, manca però una parte. Circa 3,5 chilometri di marginamenti e di rifacimenti delle sponde. Eppure, come spiega la relazione, per terminare il 6 per cento dei lavori «occorre la complessiva somma di circa 250 milioni di euro, pari ad oltre il 30 per cento di quella sinora sostenuta dallo Stato per realizzare il 95 per cento delle opere ad oggi eseguite». Nessun mistero: i marginamenti da completare e rifinire, si legge ancora nel documento di inchiesta, «sono quelli più complessi».
«Ad oggi – scrive la commissione – il mancato completamento di tali opere sta provocando il progressivo indebolimento anche dei tratti terminali delle strutture già realizzate e sta mettendo in serio dubbio la bontà complessiva degli interventi finora realizzati, che sono stati eseguiti non a regola d’arte»
Il rischio è che l’intera opera di bonifica risulti inutile. La commissione lo scrive in maniera fin troppo esplicita. «Ad oggi il mancato completamento di tali opere sta provocando il progressivo indebolimento anche dei tratti terminali delle strutture già realizzate e sta mettendo in serio dubbio la bontà complessiva degli interventi finora realizzati, che sono stati eseguiti non a regola d’arte». Oltre al danno, si rischia anche la beffa. Come denunciano i parlamentari che si sono occupati della bonifica, la vicenda potrebbe avere degli strascichi legali tutt’altro che irrilevanti. Si torna ai fondi messi a disposizione dalle industrie interessate. «In forza degli atti transattivi finora conclusi con i privati, lo Stato si è impegnato a provvedere – peraltro anche in tempi brevi – alla messa in sicurezza di emergenza e alla bonifica della falda nelle aree in concessione o di proprietà dei privati». Ecco perché appare sempre più probabile che presto lo Stato possa essere chiamato a rispondere in sede civile della mancata conclusione dei lavori di bonifica, anche con rilevanti richieste risarcitorie. E non è una semplice ipotesi: «Si tratta di un evento che va messo in conto, come altamente probabile, in considerazione sia della qualità dei contraenti privati, sia del rilevante importo delle somme da costoro versate a transazione del danno ambientale».
Come se non bastasse, sulla bonifica di Porto Marghera restano altre ombre. In Aula Bratti racconta che per queste opere sono stati pagati circa 2 milioni di euro di collaudi, «distribuiti a decine di commissioni che hanno collaudato pezzi dell’opera». Peccato che ad oggi non sono mai stati terminati i lavori della bonifica. «Ci troviamo in una situazione in cui sono stati spesi oltre 2 milioni di euro per collaudare pezzi di opera, senza avere mai il collaudo definitivo». La relazione si spinge oltre. Nel testo depositato in Parlamento si denuncia esplicitamente che i collaudi «effettuati sui singoli manufatti realizzati, e non sull’opera nel suo complesso, nonostante tecnicamente inevitabili, rappresentano un mero sperpero di denaro pubblico, in quanto si tratta di collaudi del tutto inutili se non seguiti dalla verifica della funzionalità complessiva dell’intera opera eseguita».