Le donne fuggono dal mondo del lavoro e nessuno se ne preoccupa

La percentuale di donne inizialmente disoccupate che abbandonano il mercato del lavoro cresce. Per quanto tempo ancora l’Italia potrà rinviare riforme a sostegno della partecipazione femminile al mercato del lavoro?

La scorsa settimana l’Inps ha diffuso i dati sulle assunzioni nell’ultimo trimestre del 2015. Inevitabili sono arrivati i commenti di chi ha voluto tracciare un primo bilancio del Jobs Act. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini e il consigliere di Palazzo Chigi Marco Leonardi hanno dichiarato: «L’obiettivo principale della riforma era quello di cambiare la composizione del lavoro, dando prevalenza al contratto a tempo indeterminato, e di mettere fine all’ambiguità di finte partite Iva e co.co.pro» (l’Unità, 17 febbraio 2016). Assumendo questo punto di vista come il principale criterio di valutazione della riforma, saremmo quasi inevitabilmente portati a ritenere che il Jobs Act si configuri come un successo, avendo esso propiziato la trasformazione di 578.000 contratti a termine e di apprendistato in contratti a tempo indeterminato. È quanto sostengono Nannicini e Leonardi, i quali ammettono, sempre in apertura dell’articolo: «Con le riforme del mercato del lavoro non si crea magicamente occupazione, ma si può condizionarne la qualità e fare in modo che le regole del gioco facilitino anziché scoraggiare la ripresa occupazionale appena l’economia riparte. Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti».

Il 44,2% di quanti erano disoccupati nel secondo trimestre del 2015 sono rimasti tali nel terzo trimestre dello stesso anno, mentre il 14,3% ha trovato un impiego e il 41,6% è divenuto inattivo. Numeri preoccupanti, soprattutto se rapportati alla media Ue

D’altro canto, non sono certo mancati i commenti da parte dei detrattori della riforma. Permangono infatti molti dubbi sulla reale incidenza del Jobs Act nel creare rapporti di lavoro di “qualità”, soprattutto alla luce del massiccio programma di decontribuzione inizialmente varato nella legge di stabilità 2015, la cui efficacia in termini di rapporto costi-benefici resta tutta da valutare. In attesa di nuovi dati e dei necessari approfondimenti utili a dirimere la disputa, dovremo necessariamente fare i conti con gli ultimi dati macroeconomici relativi alla congiuntura, che appare quantomeno preoccupante sul fronte internazionale, e ancor di più entro i confini nazionali.

Per restare sul tema del mercato del lavoro, siamo andati a guardare l’ultimo aggiornamento dei dati Eurostat relativi alle transizioni dalla disoccupazione nei paesi della Ue. L’indagine vuole evidenziare in quale proporzione i disoccupati a un dato trimestre siano rimasti tali nel trimestre successivo, e quanti abbiano invece trovato occupazione o abbandonato il mercato del lavoro. Come prontamente rilevato da Mario Seminerio, l’Italia rimane un caso peculiare: il 44,2% di quanti erano disoccupati nel secondo trimestre del 2015 sono rimasti tali nel terzo trimestre dello stesso anno, mentre il 14,3% ha trovato un impiego e il 41,6% è divenuto inattivo. Numeri preoccupanti, soprattutto se rapportati alla media Ue, dove la disoccupazione denota certamente una più elevata persistenza – con il 62,7% dei lavoratori disoccupati nel secondo trimestre del 2015 rimasti tali nel terzo trimestre dello stesso anno – ma dove il dato relativo alla transizione da disoccupazione a inattività non supera il 19,4 per cento. Insomma, questi dati non ci restituiscono certo l’immagine di un mercato del lavoro in salute. Vedremo se la tanto osannata quanto eufemisticamente flebile inversione di tendenza si rifletterà nel prossimo aggiornamento. È presto per dirlo, ma le premesse non sembrano delle migliori.

Il mercato del lavoro italiano è strutturalmente asfittico per chi cerca un impiego e la transizione nelle file degli inattivi rappresenta uno “sbocco” quasi naturale, molto più di quanto osservato nei mercati lavorativi dei nostri partner europei

Nel frattempo, siamo in grado di dire qualcosa in più rispetto ai dati di flusso del mercato del lavoro? La risposta è sì. Lo facciamo a partire da una doverosa considerazione: i dati in esame non sono stati depurati da fattori stagionali. Questo significa che l’ampiezza e la direzione di un dato flusso potrebbero riflettere non solo le condizioni economiche generali, ma anche fattori quali il lavoro stagionale, inter alia. In ragione di ciò, abbiamo calcolato la variazione su base annua, disaggregando i dati rispetto al sesso dei soggetti inclusi nell’indagine. I grafici a seguire mostrano le serie storiche delle transizioni a partire dallo status di disoccupato. Cosa rilevare rispetto al dato aggregato? Innanzitutto, la Figura 1 mostra che la variazione su base annua nella transizione dallo status di disoccupato a quello di occupato riacquista il segno positivo già nel secondo trimestre del 2014 – ben prima dell’entrata in vigore della decontribuzione (gennaio 2015) e del Jobs Act (marzo 2015) – mantenendo poi un trend ascendente, almeno fino all’aggiustamento intervenuto tra il terzo trimestre del 2014 e lo stesso trimestre del 2015 (-0,3%). A colpire, in quest’ultimo periodo, è soprattutto il massiccio aumento nella percentuale di disoccupati che si sono resi inattivi sul mercato del lavoro (+3,3%).

Infine, rileviamo una forte correlazione negativa (-84%) tra i dati relativi a chi, partendo dallo status di disoccupato, resta tale nel corso dell’anno successivo e chi, per un motivo od un altro, abbandadona il mercato del lavoro (cfr. Figure 2 e 3). Una relazione inversa tra questo tipo di dati è fisiologica, ma in questo caso siamo quasi 20 punti percentuali al di sopra della media dell’Eurozona (-65%). In sostanza, il mercato del lavoro italiano è strutturalmente asfittico per chi cerca un impiego e la transizione nelle file degli inattivi rappresenta uno “sbocco” quasi naturale, molto più di quanto osservato nei mercati lavorativi dei nostri partner europei. Cosa ancor più preoccupante, i dati più recenti non sembrano delineare un robusto cambio di tendenza.


Volgendo lo sguardo ai dati disaggregati per genere, balzano agli occhi i flussi relativi al lavoro femminile: tra il terzo trimestre del 2014 e lo stesso trimestre del 2015 le donne inizialmente disoccupate e successivamente divenute occupate sono diminuite dello 0,9%, mentre quelle rimaste disoccupate sono diminuite del 6,1per cento. L’inevitabile conclusione è che, in un anno, la percentuale di donne inizialmente disoccupate che hanno abbandonato il mercato del lavoro nel trimestre successivo è aumentata del 7 per cento. Parliamo dell’incremento più elevato nel campione in esame, peraltro rilevato in una fase in cui la “ripresina” muoveva i suoi primi passi.

Al di là degli aspetti congiunturali, è necessaria una presa di coscienza rispetto al valore strategico del lavoro femminile in economie, come quella italiana, storicamente affette da bassa crescita economica, elevato debito pubblico in rapporto al Pil, scarsa crescita demografica e dunque potenziale insostenibilità del sistema pensionistico. Per quanto tempo ancora l’Italia potrà rinviare riforme a sostegno della partecipazione femminile al mercato del lavoro? Siamo proprio sicuri che la priorità sia quella di agire sulla rimodulazione delle forme contrattuali in una fase in cui la domanda stenta a decollare, sostenendo peraltro grossi sforzi finanziari, e con il rischio neanche troppo remoto che la montagna partorisca l’ennesimo topolino?

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