È arrivato il momento di tagliare lo stipendio ai cappellani militari? Un’interrogazione presentata la scorsa settimana dal deputato di Sinistra Italiana Gianni Melilla riapre un’antica polemica. Non si tratta di togliere il conforto della fede ai nostri soldati. Quanto, piuttosto, di eliminare il trattamento economico del personale religioso a carico del ministero della Difesa e trasferirlo alla Santa Sede. Un accorgimento che, secondo alcune stime citate nel documento parlamentare, porterebbe a un risparmio per le casse dello Stato di circa 6,3 milioni di euro l’anno.
Il tema non è nuovo, si diceva. Nella scorsa legislatura avevano già provato a sforbiciare la spesa dei cappellani militari i deputati radicali. Due anni fa il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti aveva presentato un’analoga proposta. Adesso è il turno dell’esponente di SI Melilla. A sentire il deputato è una riforma attesa: «Dal 1984 – si legge – anno nel quale è stato siglato il nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, manca una revisione dell’intesa sullo status dei cappellani militari».
Nella scorsa legislatura avevano già provato a sforbiciare la spesa dei cappellani militari i deputati radicali. Due anni fa il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti aveva presentato un’analoga proposta
Un primo passo verso nuove intese è arrivato nel 2014. Quando l’arcivescovo monsignor Santo Marcianò, ordinario militare appena nominato, ha accettato il principio che i cappellani militari rinuncino ai gradi. Proprio così. Tra i militari con la tonaca ci sono infatti 173 tra generali, colonnelli e capitani. «Senza armi» spiega il documento depositato a Montecitorio, visto che l’unico compito garantito dal Concordato è fornire l’assistenza spirituale ai militari delle nostre Forze Armate. Come si scala la gerarchia dell’ordinariato militare (considerato al pari di una diocesi cattolica)? L’interrogazione chiarisce la disciplina: «Il comandante, l’ordinario, assume il grado militare di tenete generale». Al suo fianco è prevista la figura di un vicario, che assume i gradi di maggiore generale. E due ispettori con funzioni di vigilanza: che diventano brigadiere generale. Nei vari reparti, poi, si trovano i cappellani: maggiori, capitani e tenenti. «Ovviamente gli stipendi e poi le pensioni vanno di pari passo con gli avanzamenti».
Si tratta di un servizio religioso importante, mai messo in discussione. Che secondo le stime di Melilla costa allo Stato circa venti milioni di euro l’anno. «Nel 2013 – si legge – al ministero della Difesa la cura spirituale dei militari impegnati in missione è costata quasi 17 milioni di euro; questa cifra comprende gli stipendi, le pensioni e il mantenimento degli uffici; solo questi pesano 2 milioni di euro l’anno».
«I loro stipendi, equiparati a quelli dei generali, ammontano a 6 milioni e 300mila euro. Per quanto riguarda le spese pensionistiche è possibile unicamente fare una stima approssimativa»
Nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale, i cappellani militari erano quasi tremila. Circa la metà, secondo Wikipedia, operanti al fronte. Di questi 435 furono insigniti di una medaglia al valor militare, «110 seguirono i propri reparti nei campi di prigionia, ne morirono 93». Oggi sono molti di meno. Secondo l’interrogazione di Sinistra Italiana i cappellani in attività sono 134. Melilla fa un po’ di conti in tasca ai religiosi con le stellette. «I loro stipendi, equiparati a quelli dei generali, ammontano a 6 milioni e 300mila euro. Per quanto riguarda le spese pensionistiche, non essendo chiaro l’ammontare complessivo delle erogazioni, è possibile unicamente fare una stima approssimativa: in ogni caso l’importo annuo lordo del trattamento pensionistico ordinario dei cappellani dovrebbe ammontare a circa 43 mila euro lordi. Considerando che i cappellani che sono andati in pensione negli ultimi 20 anni sono 156, l’importo complessivo è di 6 milioni e 700 mila euro».