Padre Martìn Lasarte è appena tornato da Tijuana e Ciudad Juarez. Missionario salesiano, ha trascorso qualche tempo vicino alla frontiera più discussa del momento. Tra Stati Uniti e Messico. Da queste parti i suoi confratelli organizzano una serie di iniziative per aiutare i migranti che ogni giorno – rischiando la morte – cercano di attraversare i confini in cerca di un lavoro. Tra le tante attività, la congregazione ha allestito una mensa che quotidianamente offre un pasto a 1.200 persone. Tra pochi giorni il sacerdote volerà in Kenya. Qui è atteso da altri salesiani impegnati nel campo rifugiati più grande del mondo. Una struttura che ospita oltre 180mila persone in fuga da Sudan, Etiopia e Burundi. È la vita del missionario. Dopo aver trascorso 25 anni in Angola, Lasarte la conosce bene.
«Noi salesiani siamo presenti in 132 paesi», racconta orgoglioso. È una delle congregazioni più attive, con circa 3mila missionari. Negli ultimi anni almeno 500 salesiani sono andati in Africa. È il contenente dove la presenza è maggiore, insieme all’Asia. «In India – racconta padre Lasarte – solo l’1,62 per cento della popolazione è cattolica. Ma è una comunità che continua a crescere». Ci sono 2.500 salesiani, e tra loro non mancano diversi missionari. E poi il Nepal. Qui la congregazione ha da poco aperto la quarta scuola. «Pensi che fino a pochi anni fa in questo Paese non c’era nemmeno un cattolico». Difficile raccontare l’impegno missionario della Chiesa senza partire da questi luoghi di frontiera. I più impensati. Il sacerdote ricorda con un sorriso i confratelli della Slovacchia, «una regione piena di vocazioni». In questo periodo sono attivi in Siberia e Azerbaijan. «Altri stanno avviando altri programmi in Kazakistan».
«In Africa abbiamo perso tanti confratelli in zone di guerra». In Angola, dove padre Martìn Lasarte ha trascorso 25 anni, sono stati uccisi oltre venti missionari. Due di loro erano salesiani.
Il messaggio del Vangelo si accompagna all’aiuto delle popolazioni. I missionari aprono scuole, centri di formazione professionale, ospedali. Nelle grandi città africane, come Kinshasa, i salesiani organizzano dei centri per ragazzi di strada. Un impegno importante anche dal punto di vista economico. «Solo in Africa negli ultimi trent’anni avremo investito un miliardo di euro». Una missione non sempre priva di rischi. La storia dei missionari cattolici è scandita dalle vicende dei martiri. Tre settimane fa quattro suore missionarie della Carità – la stessa congregazione di madre Teresa di Calcutta – sono state uccise in Yemen da alcuni uomini armati. E un sacerdote indiano che era con loro è stato sequestrato. «Non sappiamo ancora se i responsabili sono dell’Isis o Al Qaeda» racconta Padre Lasarte. Il missionario è un impegno in prima linea. E i pericoli non vengono solo dal fondamentalismo religioso. «In Africa abbiamo perso tanti confratelli in zone di guerra». In Angola, dove il sacerdote ha trascorso 25 anni, sono stati uccisi oltre venti missionari. Due di loro erano salesiani. Senza contare le difficoltà legate ai difficili contesti in cui si vive. Poco tempo fa alcuni missionari sono morti in Liberia e Sierra Leone dopo aver contratto l’ebola. «Avevano deciso di rimanere in quei Paesi, nonostante l’epidemia, per organizzare dei centri per i bambini orfani».
Intanto il significato di missione sta cambiando. Dalle nostre parti le vocazioni sono sempre di meno. Oggi nel mondo ci sono 600 missionari salesiani di origine italiana, ma quasi tutti sono molto anziani. Il ricambio generazionale non c’è stato. «In compenso arrivano nuovi missionari da altre parti del mondo – spiega Lasarte – Africa e Asia soprattutto». E così, aspetto curioso, oggi la maggior parte dei missionari salesiani sono originari del Vietnam. Intanto il flusso si sta invertendo: un tempo si inviavano missionari nei paesi del terzo mondo. Oggi molti missionari vengono in Europa proprio da quelle realtà. Inviati per rivitalizzare la fede nei paesi di forte tradizione cristiana, ma investiti da un rilevante processo di secolarizzazione. Le contaminazioni sono all’ordine del giorno. «Il concetto missionario è molto trasversale – racconta divertito il sacerdote – Tutti inviano, tutti ricevono». Resta irrisolto il tema motivazionale. Cosa spinge un sacerdote a diventare missionario? «È una vocazione nella vocazione. Un impegno che assicura grandi difficoltà, ma anche enormi gratificazioni». Alla base di tutto c’è il concetto di disponibilità verso il prossimo. «Non andiamo nei posti che ci piacciono di più, ma in quelli dove c’è più bisogno».
Dalle nostre parti le vocazioni sono sempre meno. Ma nel mondo restano 600 missionari salesiani italiani. Ma cosa spinge un sacerdote a scegliere questa strada? «È una vocazione nella vocazione. Un impegno che assicura grandi difficoltà, ma anche enormi gratificazioni»
Il compito di dirigere e coordinare l’opera dell’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione missionaria spetta alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Una delle nove congregazioni della Curia romana. Un’istituzione con quattro secoli di storia alle spalle. Eppure sono tali e tante le opere missionarie in giro per il mondo che è difficile quantificare l’impegno della Chiesa. Alcuni dati danno un’idea: in tutto il pianeta la Chiesa gestisce oltre 70mila scuole materne, 95mila scuole primarie e quasi 45mila istituti secondari. Dove studiano oltre 50 milioni di bambini. Sono dati presentati un paio di anni fa dall’Agenzia Fides, in occasione della giornata missionaria mondiale. «Gli istituti di beneficenza e assistenza gestiti nel mondo dalla Chiesa sono complessivamente 115.352». Oltre 5mila ospedali, 17.322 dispensari, 648 lebbrosari, 15.699 case per anziani, malati cronici e handicappati. Ma anche 10mila orfanotrofi e 11mila giardini d’infanzia.
È una realtà complessa e articolata. Oltre alle principali congregazioni e comunità missionarie, un ruolo importante è svolto da singoli sacerdoti, mandati “in prestito” da una diocesi all’altra. Tecnicamente si parla di fidei donum. Missionari inviati a un’altra diocesi dopo un accordo tra i due vescovi. Secondo i dati di wikipedia nel 1999 il numero dei preti fidei donum italiani era di 1052. Scesi a 550 nel 2005. E poi ci sono le comunità e le associazioni, anche laiche. Una delle più attive è la comunità Papa Giovanni XXIII, fondata nel 1968 da don Oreste Benzi. Nel 1985 ha aperto la prima casa famiglia all’estero, in Zambia. Poi l’esperienza è stata esportata in Brasile. Oggi la comunità opera in 35 paesi di tutti i cinque continenti. Oltre 100 progetti che nel 2014 hanno accolto più di tremila persone. Antonio Caproni è l’animatore per le missioni della comunità. «Siamo una realtà laica – racconta – ma al nostro interno ci sono anche sacerdoti diocesani». Ancora una volta si torna alle frontiere del mondo. «Siamo presenti in vare zone di conflitto. Siamo in Palestina, a sud di Hebron. Siamo in Colombia insieme alle comunità non violente di contadini. Ma anche in Albania e nei campi profughi del Libano». E ancora in Iraq, Russia, Cile e Bolivia… La filosofia alla base dell’impegno missionario è sempre la stessa: «La condivisione diretta e concreta con gli ultimi. E la lotta per la rimozione delle cause di ingiustizia ed emarginazione».
Il proselitismo non è un elemento fondante, anche se la motivazione della fede resta centrale. «Semmai – scherza Caproni – siamo noi che andiamo per convertirci». In ogni caso dove opera l’associazione si cerca sempre di mantenere una piena comunione con la Chiesa e i vescovi locali. Anzi, spesso sono proprio loro che chiamano i missionari della comunità. La forma più comune di intervento è la casa famiglia. «Diventiamo famiglia per chi non ce l’ha» spiega Caproni, che ha trascorso più di quindici anni in Brasile. Ma non solo. Nei paesi dove è presente, la comunità ha creato attività educative e alimentari. In Zambia c’è un interessante progetto a tutela delle vittime dell’Aids. «Ogni giorno – continua Caproni – oltre 40mila persone siedono alla nostra tavola». Essere missionari vuol dire anche questo.