Animal grabbing: la Cina spoglia l’Africa uccidendo i suoi animali

Zanne di elefante e corni di rinoceronti sono di estremo valore nell’estremo oriente. La domanda cinese, cresciuta con lo sviluppo dell’economia, alimenta il bracconaggio, creando veri e propri eserciti di caccia

Nel 2015 sono stati uccisi 1.338 rinoceronti africani. Un po’ di più rispetto al 2014, quando solo in Sudafrica ne erano stati uccisi, per bracconaggio, 1.215. L’anno prima si era toccato quota 1.004, e quello prima ancora “solo” 668. Ogni anno, fanno notare qui, si infrange un nuovo record. Non va meglio con l’elefante della savana. In Tanzania, dal 2009, si è vista una decimazione e oggi la popolazione è diminuita del 53%. In Mozambico, nello stesso periodo, una perdita del 48%. Tutti uccisi dal bracconaggio, o meglio dell’avorio nelle zanne o delle presunte proprietà mediche del corno. Una strage.

Come si spiega? La principale causa, secondo il consenso unanime dei gruppi ambientalisti, è la crescita economica cinese. Come è noto, il grande mercato che muove l’economia del bracconaggio si trova là. Almeno il 70% dell’avorio illegale finisce in Cina. Il consumatore tipo di corni di rinoceronte è membro della upper-class cinese e vietnamita (questioni di status symbol: è disposto a pagare almeno 66.000 dollari al chilo, cioè 500.000 dollari per un corno). E il fatto che la Cina sia sempre più presente negli affari e nelle economie degli Stati africani ha il suo peso. Anzi, secondo molti esponenti può solo peggiorare la situazione. «I due fenomeni avanzano in modo parallelo. Gli interessi di Pechino facilitano una predazione più profonda», spiega Isabella Pratesi, rappresentante del WWF italiano, «che non si limita solo agli elefanti e ai rinoceronti. Va a colpire anche la cosiddetta bush meat, cioè animali come scimmie e pangolini che vengono cacciati per vendere la carne», il tutto in una carneficina che negli anni, a parte qualche eccezione, è aumentata.

Una presenza che si fa notare. Già nel 2011 almeno 150 cinesi sono stati arrestati in Africa, in un’area compresa tra il Kenya e la Nigeria, con l’accusa di contrabbandare avorio. Non solo. Come faceva notare già il New York Times, «ci sono forti prove che il bracconaggio aumenta nelle aree dove sono maggiori gli insediamenti di operai cinesi». Sia perché, costruendo nuove strade nel continente, creano vie più veloci per l’accesso nelle zone dove vivono gli animali, sia perché il controllo della zona che esercitano consente meno pressione da parte della polizia. Dal land grabbing all’animal grabbing, insomma, il passo è stato molto breve.

Si prenda il caso di Yang Feng Glan, affarista di primo livello nel traffico di avorio, arrestata nel 2015. La donna, soprannominata “la regina dell’avorio”, era a capo di una rete di traffico di zanne di elefante almeno dal 2006. Quando è stata fermata, aveva appena concluso un affare per circa 2,5 milioni di dollari e 706 zanne di elefante. Secondo alcune ricostruzioni, era arrivata in Africa nel 2006 come interprete cinese-swahili, proprio in occasione della costruzione di una linea ferroviaria. Yang Feng Glan possedeva diverse attività, tra cui un ristorante, e aveva un ruolo di spicco nel Business Council Tanzania-Cina. Era, cioè, inserita nel tessuto delle relazioni commerciali e politiche tra i due Paesi, ruolo che secondo l’accusa utilizzava per rendere più facile l’esercizio della sua attività (non il ristorante). «Per una volta, anziché prendere pesci piccoli, se ne è pescato uno grande», aveva commentato Andrea Costa, portavoce dell’Eal, l’Elephant Action League, una delle organizzazioni no-profit che si occupa di monitorare il bracconaggio.

Ma la questione, in realtà, è molto più grande, e non riguarda solo la Cina. Anche perché Pechino, dal marzo 2016, dopo una serie di pressioni internazionali (compreso un incontro con il presidente americano Barack Obama), ha imposto un bando all’acquisto di avorio straniero lavorato prima del 1975 (bando che, in realtà, è molto facile da superare e che consente una grande varietà di scorciatoie). Intorno al grande affare degli animali africani si muovono vere e proprie organizzazioni criminali, composte da centinaia di persone. «All’inizio erano pochi gruppi», spiega Isabella Pratesi, «composte da una decina di persone. Ora sono veri e propri eserciti». Armati e muniti di elicotteri militari «penetrano nelle riserve naturali e uccidono decine di esemplari ogni volta». Il centro nevralgico, anche per la sua corruzione dilagante, è il Sudan di Omar al-Bashir, e il gruppo più attivo è, senza dubbio, il Lord’s Resistance Army, l’organizzazione criminale e sanguinaria ugandese guidata da Joseph Kony.

Nel 2015 il documentario Warlords of Ivory di Bryan Christy, giornalista del National Geographic, documenta il tragitto compiuto da una zanna di avorio (con dentro nascosto un rilevatore Gps) da quando viene consegnata a un gruppo di bande della Repubbica Centrale Africana al passaggio di confine con il Sudan. In mezzo, la presenza del Lord’s Resistance Army. Vengono mostrate anche scene di caccia, compiute dal gruppo, mentre sparano agli elefanti da un elicottero. Ma a parte le scene toccanti di sofferenza e crudeltà, il documentario mostra il legame, spesso contestato, tra traffico di avorio e organizzazioni terroristiche.

È un assunto portato avanti da più soggetti. Lo stesso Eal sostiene in un report del 2011 che in mezzo ci siano gruppi islamisti come Al Shabaab e Boko Haram. È l’oro bianco della jihad. Il Wwf lo rilancia e perfino Hillary Clinton, quando era ancora segretario di Stato, avrebbe chiesto politiche più dure da parte degli Usa per contrastare il bracconaggio, in quanto «fonte di finanziamento di gruppi terroristici pericolosi». Eppure la questione rimane dibattuta. In un op-ed sul New York Times, il giornalista americano Tristan McConnell sosteneva che non si potesse delineare una connessione tra terrorismo e bracconaggio per mancanza di prove. Escluso, come è ovvio, il LRA. Nemmeno Christy, del resto, ha trovato nel suo documentario una prova che collegasse al Shabaab con le uccisioni di animali: sembra che gran parte dei suoi guadagni provengano, in realtà, dal carbone. Ma la posizione di McConnell, puntualizza Christy a Linkiesta, non appare in un articolo ma in un editoriale, che ha un livello di fact-checking diverso. Cioè, minore.

È un argomento complicato. Da un lato, spiega McConnell, la tentazione di unire i due fenomeni (terrorismo islamico + bracconaggio) è forte, per cui è facile prendere posizioni affrettate senza tenere conto della realtà dei fatti – cioè, di fatti verificati. Il problema è che, come spiega Isabella Pratesi, è molto probabile che non ci sia «in Africa un’organizzazione criminale e terroristica che non sia finanziata, in modo diretto o indiretto, da risorse animali». Del resto, sono tante le mani attraverso cui passano zanne e corni, dal momento dell’uccisione dell’animale nei parchi (in operazioni, si ricorda, che coinvolgono «circa duecento persone armate, e uno stuolo di controllori corrotti e politici compiacenti») fino a quando arrivano, stipati in container, al porto di Mombasa, vero e proprio punto di raccolta del traffico illegale di avorio. Da qui, poi, partirà alla volta dell’estremo oriente.

Dietro di sé lascia una scia di sangue e crudeltà, di gruppi terroristici e criminali e un ambiente naturale e impoverito, soprattutto per quei Paesi che fanno del turismo una delle proprie priorità economiche. «Ma i proventi dei safari, purtroppo, non potranno mai eguagliare quelli del bracconaggio, almeno nel breve periodo». Che vuol dire, finché ci saranno animali vivi.

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