L’apparizione di Salvo Riina a Porta a Porta è la tempesta informativa perfetta, perché riassume e fa scontrare due perturbazioni dell’intelligenza comune, due correnti d’opinione che sembrano difficilmente discutibili.
La prima si è formata negli anni d’oro dell’anti-berlusconismo come unica forma possibile di militanza civile. E’ quella che considera Bruno Vespa il non minus ultra del giornalismo non solo televisivo. Vespa, secondo molti, è esclusivamente quello dei plastici della villetta di Cogne, quello che ha lanciato la comfort-criminologist Bruzzone, quello che da sempre intrattiene rapporti tutt’altro che schiena dritta col Potere -berlusconiano prima, renziano ora-. Quello che ha avuto l’ardire di invitare in trasmissione i Casamonica nell’after show funeralesco.
L’emblema dell’informazione spazzatura, insomma. E quindi il contenitore meno adatto per mettere in scena un’intervista al figlio del mammasantissima dei mammasantissima, Totò “u curtu”.
Ma a favore di Vespa sarebbe il caso di dire che i modelli dell’infotainment (e anche dell’informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di quello che abbiamo visto su Raiuno ieri sera. L’apparizione del figlio di Ciancimino da Michele Santoro qualche anno fa, per esempio, e non come narratore di esperienze umane, ma come rivelatore di torbidi intrecci, era già assai criticabile. Per non parlare della notizia della morte di Sarah Scazzi data in diretta da Federica Sciarelli alla madre: infotainment per infotainment un esempio di televisione, oggettivamente, pessimo.
Sarebbe il caso di dire che i modelli dell’infotainment (e anche dell’informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di Vespa: da Ciancimino con Santoro, alla Sciarelli che dà in diretta alla madre la notizia della morte di Sarah Scazzi
L’altra corrente d’opinione esiste da molto più tempo. E’ quella secondo la mitizzazione dei mafiosi è il miglior alleato della mafia. E’ l’idea contenutista e francamente censoria secondo cui non bisogna “dare visibilità”, parole e immagini, alla delinquenza organizzata perché si rischia non solo di mancare di rispetto alle vittime, ma di suscitare compassione, emulazione, identificazione nello spettatore.
È la critica che viene fuori quasi ad ogni puntata della serie Gomorra; che ha accompagnato il romanzo/film/serie Tv Romanzo Criminale. È il mugugno legalista intorno a Il Padrino, tra l’altro amatissimo anche dagli gli uomini d’onore. E, si parva licet, è anche la critica che da sempre ha seguito i libri di Leonardo Sciascia (tra l’altro gliela fece anche Camilleri): aver fornito mitologia e storytelling alla mafia. Chissà se tutti ricordano una antica puntata di Un giorno in pretura, in cui Totò Riina (lui!) sotto processo raccontava ai giudici «in carcere tutti leggevamo Sciascia».
Quindi sì, il rischio di mitizzare la mafia c’è. Ma è un rischio da correre, sempre. Perché il lettore-spettatore non ha bisogno di tutor ideologici, né di “confezioni” eticamente sostenibili ai problemi.
Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell’immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. Pura rassicurazione ideologica a costo (ed effetto) zero.Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell’immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali
E quindi si torna alla tempesta perfetta, alla puntata di ieri di Porta a Porta. A Salvo Riina in studio, camicia bianca, giacca grigia, sembra un co. co. co., un precario dell’università, un praticante di studio legale nel giorno in cui non c’è udienza.
È anche uno che ha scontato 8 anni e dieci mesi per mafia ed figlio di chi ha ordinato l’attentato di Capaci. È banalità del male.
Con una certa “calata” palermitana nella voce, nella quale lo spettatore non può non cogliere (o proiettare) qualche ictus ambiguo, dice cose come: «c’era un tacito accordo familiare» e «Non ci facevamo mai domande, eravamo una sorta di famiglia diversa». E ancora: «era anche un divertimento non andare a scuola». E infine: «Il nostro cursus vitae ci ha portato a vivere in modo molto differente dagli altri. E anche, devo dire, in maniera molto piacevole». Molto piacevole, signori.Ecco perché, fatta la tara agli anti-vespismi, agli eventuali spaventi ideologici, e in breve alle perturbazioni dell’opinione comune, quello di ieri sera è stato un ottimo pezzo di televisione.
Ottimo perché restituisce tutta l’ambiguità e i paradossi della zona grigia. E il male, innanzitutto e per lo più, è grigio.