Quando il 23 aprile del 1616, 400 anni fa — giorno più giorno meno, dipende dai calendari — il britannico William Shakespeare e l’ispanico Miguel de Cervantes Saavedra morirono, praticamente in contemporanea, il mondo, che adorava entrambi, quasi non se ne accorse. Non c’erano giornali che potessero titolare a cinque colonne, né social network su cui scatenare pianti, lamenti o ironie sulla qualità degli insegnamenti che i due avrebbero portato agli angeli.
Nell’aprile del 1616 la rappresentazione della realtà era ancora nettamente scollegata al flusso della vita e alla notizia ci vollero probabilmente un paio di settimane per giungere in ogni borgo d’Europa. Quel che è certo, però, è che, quando lo si venne a sapere, tutti ebbero ben chiara la dimensione del cratere che si era creato nella cultura mondiale.
«Fu il successo del primo tomo, pubblicato nel 1605, a spingere Cervantes a scrivere il secondo, pubblicato dieci anni dopo», spiega Corrado Bologna, docente di Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore, uno dei massimi esperti italiani, che continua, «e fu a causa dei tentativi di contraffazione e di derivazione del suo personaggio».
Cosa rappresentava Cervantes all’epoca di Cervantes?
Erano gli stessi anni in cui in Inghilterra Shakespeare raccontava personaggi come Amleto, Re Lear, Otello, rappresentando altri aspetti rispetto a quelli messi in luce da Cervantes, ma entrambi portavano alla luce l’ansia collettiva per qualcosa che oggi potremmo definire il rapporto tra la follia e la normalità. In questo contesto Don Chisciotte è il rappresentante di un’età di crisi dei saperi, un’epoca di grande trasformazione. A livello letterario si era alla fine della tradizione dei romanzi di cavalleria in cui il cavaliere cercava il senso del mondo. Invece Chisciotte si trova perduto in un mondo in cui il senso non si trova più, un mondo in cui è avvenuta una divaricazione tra le parole e le cose, tra la realtà rappresentata e quella autentica.
Che significa?
Chisciotte continua a cercare somiglianze tra le parole e le cose, laddove non si accorge che queste somiglianze non hanno più spazio nella sua civiltà. È per questo che il Don Chisciotte è il primo grande romanzo moderno, in prosa oltretutto, e così viene colto immediatamente dai suoi contemporanei. Michel Foucault, nel suo libro Le parole e le cose, scrisse che «Don Chisciotte traccia il negativo del mondo del Rinascimento; la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa». Ma Cervantes è un uomo del suo tempo. Ha combattuto a Lepanto, ha visto il mondo, è stato imprigionato, ha visto l’insorgere di una politica nuova, della nuova relazione tra vecchio e nuovo mondo, e anche l’inizio di una pesante inquisizione.
Perché Don Chisciotte è sopravvissuto a quell’epoca ed è arrivato così potente fino a noi?
Perché che è riuscito a raccogliere la crisi di un’età e a rappresentarla. In questo senso sia Cervantes che Shakespeare hanno saputo raccogliere pienamente i segni della crisi, offrendo a questa crisi la potenzialità di un’espressione artistica così alta e geniale che a noi pare che siano loro ad aver dato il via alla crisi stessa. E forse in una certa misura è anche vero: i grandi geni avviano grandi catastrofi, perché dopo il loro avvento le cose non sono più come erano prima. Con lui finisce un’epoca della letteratura, l’età della cavalleria errante, il tempo degli Ariosto, dei Tasso, dei cavalieri-eroi in cerca della verità.
È Don Chisciotte ad essere pazzo o è l’unico sano in un mondo impazzito?
Don Chisciotte in realtà non è pazzo, è ritenuto pazzo dal mondo che non lo capisce perché non capisce il senso del suo andare in cerca. Don Chisciotte non è pazzo, vuole diventarlo. E lo dice espressamente a Sancho: «Devo imitare il valoroso Don Orlando. E poiché Orlando è impazzito, io diventando pazzo diverrà un vero cavaliere». Don Chisciotte perde il senno perché ha letto troppi libri, e a noi italiani del XXI secolo vien da dire che magari ce ne fossero di pazzi così oggi, in un mondo in cui nessuno legge più. I dati statistici impressionanti ci parlano di un 53 per cento di italiani che non leggono nemmeno un libro all’anno. Mi pare che la sanità mentale di questa nostra popolazione dimostri che forse era meglio diventar pazzi nel senso di Don Chisciotte.
Don Chisciotte ai nostri tempi è diventato il simbolo di una tipologia umana eroica e perdente, perché la sua irriducibilità ci affascina?
Perché il suo è un progetto di irriducibilità assoluta rispetto alle politiche e alle mediazioni. Don Chisciotte non è pronto a negoziare nulla rispetto al suo grande destino, che è quello di salvare il mondo e salvare i torti. Non è riducibile in un confronto dialettico, ma è rappresentate di un progetto assoluto. Per questo in un mondo come il nostro, che non riconosce più dei valori ideali, permanenti e irriducibili, ma che è pronto sempre a mediare e a compromettersi, Don Chisciotte può affascinare qualcuno, anche se purtroppo, per i canoni del mondo in cui viviamo, non può che essere definito un pazzo.
L’irriducibilità è uno dei caratteri che ha reso interessante a molti elettori americani e inglesi figure politiche come Bernie Sanders e Jeremy Corbyn. Il donchisciottismo ha un futuro?
Non intravedo Don Chisciotte in vista nella politica attuale. Ne abbiamo nostalgia, di sicuro, ma personaggi così intransigenti che non sono disposti a mediare sui valori alti della collettività e della comunità sono ormai estranei alla nostra memoria politica. I nostri tempi sono un po’ poveri di donchisciottismo, inteso nella sua accezione positiva, quella irriducibilità a compromessi. In questo senso Don Chisciotte è un eroe formativo, perché è l’eroe che vuole mostrare al mondo che ci si deve battere per un valore senza mai essere disposti a cedere. Oggi la politica non si occupa più di queste cose.
Cosa ci deve insegnare Don Chisciotte?
Il nostro tempo è pieno di eroi che vincono sempre, i nostri giovani sono abituati a pensare che l’ideale sia quello di chi cade sempre in piedi, di chi mente, ribaltando le proprie idee, pronto a vendersi per rimanere dove è. Negli ultimi trent’anni in Italia abbiamo avuto una pletora di questi individui, al potere malgrado tutto, rinnegando qualsiasi cosa. Non sono questi gli eroi della verità, conquistata e protetta come un valore assoluto, ma sono eroi della compromissione, della mediazione a tutti i costi, traditori seriali del vero. Don Chisciotte invece è l’eroe che cade, sempre, che ruzzola in continuazione, che si ribalta, ma che poi si rialza ogni volta. È anche in questo la sua irriducibilità, in questo suo battersi per la verità e per la soluzione dei problemi, malgrado tutto. In questo senso, anche oggi, Don Chisciotte ha un alto valore simbolico e allegorico, il segno che cadere non significa perdere. L’irriducibile Chisciotte vince anche quando è per terra.
Due dei pilastri culturali della nostra società, Cristo e Don Chisciotte, condividono questa estetica della vittoria nella sconfitta. Perché però su di noi non ha più presa?
Il vero problema è un’etica, è attorno a quella che si costruisce una estetica. Questo è il grande problema dei nostri tempi, di una politica che non ha più l’etica come momento di fondazione. Chisciotte è l’eroe di un’etica, di un ethos, di un saper vivere e la sua etica è chiara fin dalla prima pagina: raddrizzare il mondo e vendicare i torti e le offese. Noi usiamo chiamare folle e donchisciottesco colui che si assume l’incarico di raddrizzare i mali del mondo. Sappiamo bene che da soli non si può, ma sappiamo anche bene che ognuno, nell’etica individuale, nell’etica della responsabilità, deve saper assumere in modo irriducibile le proprie responsabilità, e lo deve fare collegandosi con gli altri. È qui che la fondazione della politica deve nascere: nel riconoscimento di un’etica radicale, irrinunciabile e irriducibile. Se questo avviene nasce una politica, come nell’Italia nel dopoguerra dove la situazione era talmente pesante da rendere possibile soltanto un nuovo inizio, o una sconfitta. L’Italia nata dalla resistenza al fascismo e poi dalla guerra civile aveva il senso della condivisione comunitaria, si chiamava Paese, ed era una nazione che aveva un suo donchiscottismo profondo, che è riuscito a realizzare e a fondare una ripresa, una rinascita.
Dove è finito il donchisciottismo italiano?
Nel corso degli ultimi 30 anni, quella cifra si è persa, si è persa la condivisione, non soltanto all’interno della nazione, ma tra nazioni, tra popoli, anche in Europa e purtroppo sappiamo come sta andando. È un mondo occidentale ricco, pieno di capitali, ma con ben pochi valori di condivisione quello che adesso è in un conflitto permanente, da una parte con se stesso, dall’altra con l’altro da sé. In questa situazione così confusa, o si torna a dei principi di valore che siano opposti a quei principi conflittuali che ci portano alla guerra, alla morte, alla sopraffazione, oppure non ci sarà futuro.
Abbiamo bisogno di un’utopia?
La ragione per cui Don Chisciotte resta che più di Amleto e di altri personaggi di Shakespeare è proprio questo: costituisce un progetto utopico. E se è vero che non si vive di sole utopie, è anche vero che non si vive neppure senza. Abbiamo bisogno di valori condivisi, di parole come comunità, condivisione, collegamento, tutte parole che hanno in sé il cum. Riscattare il Don Chisciotte dimenticato nelle pieghe profonde della nostra società, significa tornare a credere in valori condivisi comuni, non semplicemente contrattare un interesse privato, individuale, come purtroppo la politica attuale, che non è più neanche politica, ci sta proponendo. È il portare la condivisione nel mondo, portare dei valori alti e persuadere il prossimo a condividerli per riformare una nuova comunità, questa è la battaglia, ancora attuale, dell’irriducibile Alonso Quijana.