L.S. era un ciclista professionista. Una domenica, negli anni ’70, corse la Paris-Tours, una delle grandi classiche di primavera. Arrivò secondo, pedalando a una media di 40 km allora. Il giorno dopo si sente stanco e va dal medico: è colpa dello sforzo, gli dice, e lo rimanda a casa. Mercoledì compaiono le prime emorragie e L.S. viene ricoverato in ospedale. Il giovedì gli diagnosticano la leucemia acuta promielocitica. Il sabato, sei giorni dopo la gara, L.S. muore.
Basta questo caso, tanto isolato quanto esemplificativo, a spiegare quanto sia terribile e fulminante la leucemia acuta promielocitica. Nome complesso per una malattia che il suo primo scopritore, un ematologo norvegese, ribattezzò “leucemia maligna”. La peggiore, in altre parole, nell’alveo di una delle peggiori malattie che possano capitare.
È una forma rara, la leucemia acuta promielocitica, che colpisce poche migliaia di persone all’anno nel mondo, 150-200 in Italia, ed è poco conosciuta e ancor meno comunicata. Quello della leucemia acuta promielocitica è uno dei tanti casi di malattie rare in Italia, peraltro: «Secondo la rete Orphanet Italia, nel nostro Paese sono due milioni le persone affette da malattie rare e negli ultimi anni la ricerca ha prodotto importanti risultati nel trattamento in diverse aree terapeutiche», riflette Roberta Bonardi, Senior Business Unit Innovative Director di Teva Italia, azienda leader nel mercato della produzione di farmaci equivalenti. In questo caso, però, la storia ha un lieto fine. Potenziale, perlomeno: perché oggi, dalla leucemia acuta promielocitica si guarisce nove volte su dieci. A patto che sia diagnosticata in fretta, però. Perché la sua forza è nella velocità con cui agisce.
Il sintomo più tipico di questo tipo di leucemia sono le emorragie. Della cute, dalla bocca, dal naso. Non semplici epistassi, sia chiaro. Abbastanza per correre al pronto soccorso, magari – meglio! – in quello di un ospedale che ha un reparto di ematologia. Anche perché la diagnosi è molto semplice, in quanto le cellule malate di leucemia acuta promeliotica, al microscopio, sono facilmente riconoscibili.
«La cura viene dalla filosofia cionfuciana secondo cui è meglio rieducare un criminale anziché ucciderlo. Fuor di metafora, meglio rieducare le cellule, anziché distruggere tutto con la chemioterapia».
La cura, a suo modo, è una piccola rivoluzione: «Viene dalla filosofia cionfuciana – spiega il professor Francesco Lo Coco, ematologo all’Università di Tor Vergata a Roma, uno dei pionieri europei in questo ambito – secondo cui è meglio rieducare un criminale anziché ucciderlo. Fuor di metafora, meglio rieducare le cellule, anziché distruggere tutto con la chemioterapia».
La chemio non funzionava bene, con la leucemia acuta promielocitica, in effetti. Sì, distruggeva le cellule malate, ma faceva aumentare a dismisura le emorragie: «Serviva una terapia di supporto molto forte – spiega il professor Giuseppe Rossi, direttore del dipartimento di oncologia a Brescia -: trasfusioni, concentrati di piastrine, concentrati di plasma che hanno fattori di coagulazione. Serviva anche trapianto di midollo, che ha alta mortalità intrinseca». Morale? Solo il 40% riusciva a uscirne e a non ricascarci.
A inizio anni ’90, la svolta: si scopre che nelle cellule malate c’è una proteina di cui le cellule sane sono prive. E che una sostanza, l’acido retinoico, è in grado di agire selettivamente solo su quella proteina. E quindi, solo sulle cellule malate. Prima si affianca questa terapia alla chemio. Poi si scopre che pure il triossido di arsenico agisce solamente sulle cellule malate, causandone la morte. È il cocktail risolutivo: oggi, se presa in tempo, dalla leucemia acuta promielocitica si guarisce nove volte su dieci. E, per le donne, non ci sono nemmeno problemi di fertilità.
C’è molto di italiano, dietro questo successo. La ricerca presentata nel luglio del 2013 sul New England Journal of Medicine ha infatti coinvolto 40 centri ematologici in Italia e 27 centri tedeschi, coordinati dal nostro Paese: «In Occidente ci furono molte perplessità in relazione a questa nuova cura – continua Lo Coco -. Negli Stati Uniti, ad esempio, la sperimentarono solo su alcuni pazienti. L’Italia rischiò: demmo a tutti la nuova cura e i risultati furono immediati e positivi». Per una volta siamo stati noi a fare la scelta giusta. E abbiamo aiutato a salvare parecchie vite.