Non solo bunker scalcagnati nascosti per le vie dell’Aspromonte o interrati da qualche parte per le vie di Napoli. L’abitare e le abitazioni dei mafiosi sono ciò che li ha resi celebri e in alcuni casi ammirati anche nell’immaginario comune.
Guardando alla residenza estiva di Al Capone a Miami si capisce che poche cose sono più lontane dal bunker nascosto sottoterra. Palme, alti muri di cinta, grandi giardini e molte stanze all’interno.
A contribuire alla conoscenza dell’abitare dei boss delle organizzazioni criminali anche la tenuta di Staten Island sul lago Tahoe: sei ettari di estensione, 17 immobili in tutto, uno yacht club e altre dependance. Costruita negli anni ’30 qui Francis Ford Coppola decise di ambientare il quartier generale de Il Padrino, in particolare per le riprese in esterna. Nel giardino della villa di Staten Island infatti sono ambientati due scene cruciali del primo episodio della saga: il matrimonio della figlia Connie e la morte dello stesso don Vito Corleone.
Più passano gli anni più i rampolli delle cosche sognano e realizzano case in stile Scarface. D’altronde una parte dei boss della vecchia guardi rimprovera ai giovani l’incapacità di vivere umilmente senza fare sfoggio di tesori e ricchezze. Eppure la criminalità ha sempre avuto grande passione per le proprie dimore.
A Palermo, per esempio, una buona parte dei guadagni dell’eroina a cavallo degli anni ’50-’60 e ’70 sono stati reinvestiti per tirare in piedi ville, condomini e appartamenti nel bel mezzo del “sacco di Palermo”, benedetto da don Vito Ciancimino. Di quell’epoca sono figlie le ville del boss Mimmo Teresi e dell’imprenditore ritenuto organico a cosa nostra Giuseppe Albanese, entrambi assassinati tra il 1981 e il 1986, del “principe di Villagrazia” Stefano Bontate, i palazzi del fratelli dello stesso Stefgano, Giovanni Bontate e le decine di fabbricati di Salvatore Scaglione, vecchio capomafia della Noce.
In tempi più recenti sono state video e fotografie scattate non solo nei bunker ma soprattutto nelle ville dei boss a mostrare cosa intendono i mafiosi per “abitare”: lusso, sfarzo perlopiù di cattivo gusto e preparazione della struttura per accogliere nascondigli, doppi fondi e pareti nascoste.
A fare scuola di quello che potremmo definire “abitare mafioso” è Nicola Schiavone, figlio di Francesco “Sandokan” Schiavone, capo dei casalesi fino al suo arresto avvenuto alla fine degli anni ’90. La villa del figlio è un inno al kitsch che vale 1,5 milioni di euro e al tempo del sequestro, avvenuto nel 2012 era classificata al fisco come popolare.
All’ingresso però non ci sono piccole stanzette dimesse, ma 300 metri quadrati composti da tre camere da letti, cinque bagni, sala da pranzo e cucina, uno studio e un salone arredato con mobili di valore non inferiori ai 300mila euro. Quando è arrivato il momento di dover svuotare l’immobile sono stati i militari del Genio a operare il trasloco, perché nessuna ditta privata si rese disponibile temendo ritorsioni.
Sempre in Campania, questa volta a Scampia, c’era anche la villa del boss Paolo di Lauro, oggi destinata a sede della Polizia Municipale. Qui, dove il boss viveva con la moglie e i dieci figli, erano ammessi solo pochi intimi: avvicinarsi al civico 41 di via Cupa dell’Arco non era permesso a tutti, nemmeno agli stessi affiliati. Lì decine di sentinelle armate tenevano sotto controllo il territorio, territorio su cui il boss impediva anche di spacciare.
Un tema quello di case, ville e appartamenti che rappresentano i nervi scoperti della criminalità organizzata che, quando toccata da sequestri e confische reagisce. Lo ha sottolineato anche il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti in una recente audizione davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia «il bene appartenuto al mafioso nella testa del mafioso non cessa mai di essere suo, anche quando glielo hai confiscato e fa parte del patrimonio dello Stato. Il mafioso non perde mai interesse per quel bene, lui o un altro sopra di lui».
A fare le spese di questo tipo di atteggiamento sono i destinatari dei beni dopo la confisca. La gestione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata è uno dei mezzi più potenti e allo stesso tempo oggetto di debolezza nel contrasto alla mafia. Molte famiglie mafiose infatti una volta intervenuto il sequestro e la più definitiva confisca arrivano a devastare il bene, rendendolo di fatto inutilizzabile. Succede a Casal di Principe, regno del clan dei casalesi, come in Lombardia: qui in provincia di Milano, a Cisliano, il ristorante una volta nella disponibilità del clan Valle, “La Masseria”, fu devastato dopo il sequestro.
Una tenuta quella della Masseria di cui furono proprietari gli esponenti di uno dei primi clan a insediare la ‘ndrangheta al nord, che in qualche modo ha riassunto negli anni tutto quello che un immobile della mafia deve avere: lusso, statue, una attività economica e una stanza dove intimidire e nel caso colpire fisicamente gli imprenditori taglieggiati dalla cosca.