Paradiso e InfernoPanama Papers, le prime vittime sono i Paesi più poveri

Le entrate fiscali perse tra Africa, Asia e America latina a causa delle ricchezze trasferite nei paradisi fiscali ammontano complessivamente a 70 miliardi di dollari l’anno. Tradotto: meno soldi pubblici da investire nei servizi essenziali

La Heritage Oil & Gas Ltd. (Hogl), fondata dall’inglese Tony Buckingham, uno dei principali sostenitori di David Cameron, aveva saputo in anticipo degli aumenti fiscali sui profitti dell’estrazione di petrolio che l’Uganda avrebbe introdotto di lì a poco. Così, come emerge dai Panama Papers – racconta il Guardian la società avrebbe progettato una ri-domiciliazione “d’urgenza” dell’impresa da un paradiso fiscale all’altro. Dalle Bahamas alle Mauritius, in modo da evitare di pagare 400 milioni di dollari di tasse allo Stato africano (grazie a un accordo sulla doppia imposizione tra i due Paesi). Una cifra superiore all’intero budget che il governo ugandese spende per la sanità pubblica.

Secondo le Nazioni unite, i sistemi di elusione fiscale simili a questo costano ai Paesi in via di sviluppo come l’Uganda 100 miliardi l’anno. Più alta la stima fatta dal Fondo monetario internazionale, secondo cui il prezzo pagato dai Paesi più poveri è di oltre 213 miliardi di dollari annui. Il fenomeno dell’offshore è globale e interessa tutti i continenti. Ma se a pagarne le conseguenze sono i cittadini di tutto il mondo, il conto più salato alla fine lo pagano i Paesi in via di sviluppo, dove per gran parte della popolazione mancano spesso anche i servizi essenziali.

Nei nomi dei clienti della società panamense Mossack Fonseca finora pubblicati sul sito dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), 18 sono africani. Tra personalità politiche, funzionari, dirigenti e parenti vari. Ci sono l’ex presidente del Sudan, il nipote del presidente sudafricano, uno dei massimi magistrati del Kenya, il segretario personale del re del Marocco, il figlio dell’ex presidente del Ghana. E ancora: il ministro del petrolio dell’Angola, personaggi di spicco del governo nigeriano e di quello senegalese. E persino il figlio dell’ex segretario delle Nazioni unite Kofi Annan.

Ricchi e ricchissimi africani residenti nei Paesi più poveri al mondo. Basta guardare i dati della Banca mondiale: in Nigeria, maggiore esportatore di petrolio di tutta l’Africa, il 46% della popolazione vive con meno di 1,90 dollari al giorno; in Sudan il 46,5%; in Senegal il 46,7 per cento. Non a caso, è da queste nazioni che provengono molti dei migranti economici che dalla Libia si imbarcano per raggiungere le coste italiane.

Secondo il Fondo monetario internazionale, lo spostamento dei profitti nei paradisi fiscali costa ai Paesi più poveri circa 213 miliardi di dollari annui

«I meccanismi di elusione fiscale usati a livello globale non solo sottraggono risorse al sistema dello Stato sociale dei Paesi industrializzati, come l’Italia, ma privano soprattutto i Paesi poveri delle risorse necessarie a combattere la povertà», spiega Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia, che nel rapporto “Un’economia per l’1%” ha illustrato le conseguenze sociali dello spostamento delle risorse offshore. «Siamo davanti a un sistema complesso fatto di paradisi fiscali e di un’industria di intermediari per la gestione patrimoniale in forte ascesa che fa sì che risorse e ricchezza restino bloccate in alto, fuori dalla portata della gente comune e senza ricaduta sulle casse pubbliche».

Secondo la stima fatta da Gabriel Zucman, economista dell’Università di Berkeley e coautore di Thomas Piketty, 7.600 miliardi di dollari di ricchezza individuale, più del Pil di Regno Unito e Germania messi insieme, oggi sono custoditi offshore (ma esistono anche stime che parlano di cifre più alte). Solo in Africa, «il 30% del patrimonio degli africani ricchi, pari a circa 500 miliardi di dollari, è custodito nei paradisi fiscali», dice Maslennikov. La stima è che questo costi ai Paesi africani 14 miliardi di dollari all’anno sotto forma di mancato gettito fiscale. Tradotto: meno soldi pubblici da investire nei servizi. Una cifra che, secondo Oxfam, sarebbe sufficiente a coprire la spesa sanitaria che salverebbe la vita di 4 milioni di bambini, oltre che ad assumere abbastanza insegnanti per mandare a scuola tutti i bambini del continente. In totale, si stima che le entrate fiscali che vanno perse tra Africa, Asia e America latina a causa delle ricchezze trasferite nei paradisi fiscali ammontano complessivamente a 70 miliardi di dollari l’anno.

Nei leak dei Panama Papers compare anche il nome del nigeriano Aliko Dangote, l’uomo più ricco d’Africa secondo Forbes, con un patrimonio di 15,4 miliardi di dollari. In base ai documenti dello studio Mossack Fonseca, Dangote, insieme alla moglie e al fratello, in questi anni avrebbe usato una serie di società domiciliate in diversi paradisi fiscali per effettuare le proprie transazioni finanziarie.

Semplificando, spesso funziona così: una società che lavora in un Paese in via di sviluppo crea una sussidiaria in un paradiso fiscale. I prodotti vengono venduti a un prezzo più basso dalla prima alla seconda, pagando quindi un minimo di tasse nel Paese d’origine. La società sussidiaria però a sua volta vende a prezzo di mercato, pagando tasse più basse. In pratica si gioca sui prezzi per arginare il regime fiscale più alto del Paese d’origine, che finisce così per ricevere molti meno proventi dalle imprese locali. Si stima che con questa pratica si sviluppa il 60% della fuga di capitali dall’Africa. Una sorta di “emorragia” continua, ha scritto Newsweek.

I flussi finanziari illeciti che vanno da Sud verso Nord superano di gran lunga tutto quello che il Nord dà al Sud

«È una ricchezza nascosta», dice Maslennikov, «che potenzialmente genera reddito di varia natura, ma che rimane esentasse nei Paesi di residenza fiscale dei ricchi drenando quindi risorse ai bilanci pubblici. Perdiamo così fondi che potrebbero essere reinvestiti in servizi pubblici, welfare, sanità, politiche occupazionali». E questi fondi, «molte imprese europee li stanno sottraendo proprio ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli dell’Africa subsahariana. I flussi finanziari illeciti che vanno da Sud verso Nord superano di gran lunga tutto quello che il Nord dà al Sud».

Spesso non si tratta di attività illegali, ammesso che lo spostamento di denaro venga dichiarato. «Ma è comunque qualcosa di moralmente riprovevole», dice Maslennikov. Anche perché, spiegano da Oxfam, il sistema offshore e la sua mancanza di trasparenza forniscono anche un’ottima copertura per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dalla corruzione politica, dal traffico illegale di armi e dal commercio mondiale della droga. L’International Bar Association, la più grande organizzazione mondiale di professionisti del settore legale, ha definito l’elusione fiscale una «violazione dei diritti umani». Mentre il presidente della Banca mondiale l’ha descritta come «una forma di corruzione che nuoce ai poveri».

«Non si potrà mai sanare la crisi della disuguaglianza finché i leader mondiali non metteranno fine una volta per tutte all’era dei paradisi fiscali», si legge nel rapporto Oxfam. «I paradisi fiscali sono un’ingiustizia che mina i principi di progressività sui quali si basa la maggior parte dei sistemi impositivi».

Oxfam ha lanciato la petizione “Basta con i paradisi fiscali”, che in due mesi ha raccolto oltre 200mila firme da tutto il mondo. «Quello che chiediamo», dice Misha Maslennikov, «è l’istituzione di registri pubblici dei beneficiari effettivi di beni e società in modo da ostacolare il trasferimento in forma anonima dei proventi dell’elusione ed evasione individuale. E anche l’introduzione dell’obbligo di rendicontazione pubblica, Paese per Paese, per tutte le multinazionali, rendendo quindi visibili le imposte versate nei diversi Paesi in cui le corporation operano attraverso le proprie sussidiarie».

La Commissione europea la prossima settimana dovrebbe presentare una legge organica sull’evasione fiscale. Ma dalle prime indiscrezioni non sarà così forte come si sperava. Il progetto della Commissione si applicherebbe solo alle aziende con un fatturato annuo di almeno 750 milioni di euro. Una soglia che, secondo l’Ocse, lascerebbe fuori tra l’85 e il 90% delle multinazionali. Non solo, dice Maslennikov, «la rendicontazione dei dati finanziari Paese per Paese sarebbe valida solo per i Paesi europei, mentre per i Paesi extraeuropei verrebbe fornito solo un dato aggregato. Questo non è un passo avanti per avere maggiore trasparenza da parte delle società».

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