TaccolaAmici mai: l’eterna lotta tra Intesa e Mediobanca

Sul Corriere si riaccende uno scontro che parte da lontano: dal 1982, quando Giovanni Bazoli si insediò al Nuovo Banco Ambrosiano. Una storia fatta di muri eretti da Cuccia, di cappotti ma anche di un abbraccio epocale. Che però non portò mai alla fine di una competizione

Il Corriere val bene una messa. Il salotto buono si rispolvera, si coprono le toppe e si ospita un valzer degno del Giardino dei Ciliegi, poco prima dell’arrivo dei tagliaboschi. Mediobanca, avviata da anni su strade internazionali e sulla piccola clientela, si riscopre banca di sistema. Chiama a raccolta i soci storici del Corriere e componenti del suo patto di sindacato. Trova il cavaliere bianco Andrea Bonomi. E rinfocola uno scontro storico con Intesa Sanpaolo. Sopito da anni ma mai davvero finito, iniziato nel 1982. Per chi nasceva in quegli anni sono mondi sfocati, di Technicolor dei primi anni Ottanta o delle immagini di repertorio coi loghi obsoleti delle televisioni degli anni Novanta.

C’è un’immagine che non è stata ripresa, perché si tratta di un incontro segretissimo. È l’ottobre del 1997, la Seconda Repubblica è iniziata da cinque anni ed è arrivata una svolta anche per la finanza italiana. Due duellanti si abbracciano. Sono Enrico Cuccia e Giovanni Bazoli. Il primo è il dominus di Mediobanca, emblema della “finanza laica” milanese, che aveva partecipazioni in ogni azienda di peso italiana ed era a sua volta controllata da un patto di sindacato, il salotto buono. Da lì passavano tutte le decisioni, anche se le partecipazioni erano limitate. Il secondo è il banchiere alfiere della “finanza bianca”, cioè cattolica. Bresciano, è stato chiamato nel 1982 dal duo Carlo Azeglio Ciampi (Banca d’Italia) e Beniamino Andreatta (ministro del Tesoro) a guidare il Nuovo Banco Ambrosiano. Dopo 15 anni, acquisizione dopo acquisizione, sta creando la futura Intesa Sanpaolo.

Il progetto ogni volta trova un muro e ad erigerlo è Cuccia. Il più alto nel 1989, una Milano da bere dove Bazoli si esprime non proprio con un lessico da Umberto Smaila: «Quando gli eventi terreni sono stati conformi ai nostri desideri ringraziamo il Signore per averci dato un segnale di benevolenza; ma nel nostro agire dobbiamo sempre accettare il rischio, sapendo che sul piano umano possiamo anche conoscere la sconfitta». Quello che succedeva sulla Terra era che dentro Ambroveneto (nata dalla fusione di poco precedente del Nuovo Banco Ambrosiano con la Banca Cattolica del Veneto) c’era una congiura e a ordirla era Cuccia. Un socio di peso, la Popolare di Milano guidata da Piero Schlesinger, decide di uscire e si avvia, d’accordo con Cuccia, a dare la quota a Generali. Il progetto fallisce grazie all’ingresso dei francesi di Crédit Agricole, chiamati da Bazoli. Lo stupore del Lord Protettore del capitalismo italiano (quello che oggi è diviso tra francesi e cinesi) è descritto splendidamente da un Fabio Tamburini d’annata, 1992. Dove si dice, in ogni caso, che il ruolo della politica, e in particolare di Andreatta, fu fondamentale nell’operazione (come in seguito sarà preziosa l’amicizia con l’allievo prediletto di Andreatta, Romano Prodi). A Bazoli, d’altra parte, assieme a Corrado Passera è attribuita l’invenzione della “banca di sistema”.

È l’ottobre del 1997, la Seconda Repubblica è iniziata da cinque anni ed è arrivata una svolta anche per la finanza italiana. Due duellanti si abbracciano. Sono Enrico Cuccia e Giovanni Bazoli

L’arma più usata da Cuccia fu però la sua costola prediletta, la Banca Commerciale Italiana che tutti conoscevano come Comit. Nel 1994 tenta un’Opa su Ambroveneto. Il Bazoli targato 2016 (il linguaggio si è sciolto per tutti) parla di «killeraggio mio e di Agricole», che però saltò per un asse tutto cattolico con le popolari venete. Il vento, intanto, cambia. E quando l’inverno sta arrivando, non ci sono barriere che tengano. La creatura di Bazoli nel 1997 è diventata grande e ha nel mirino Cariplo. Per i lombardi comuni è la banca più nota, e fa gola anche alla Comit, anche solo per ostacolare Ambroveneto. Si arriva all’incontro, sempre segreto, esasperatamente segreto. «In quegli anni ero il direttore del Sole 24 Ore e ricordo quel sistema come estremamente chiuso, con poca trasparenza. I silenzi di Cuccia non erano più adatti al capitalismo del XX secolo», dice Salvatore Carrubba a Linkiesta. Né del XX secolo erano i cunicoli sotterranei. «Imparai che esisteva un passaggio nascosto sotto via Filodrammatici», ha detto qualche giorno fa lo stesso Bazoli a un intervistatore d’eccezione come Ezio Mauro, su Repubblica. È lì che si descrive l’incontro del 1997. Hanno appena subito entrambi un lutto. Bazoli ha perso il fratello a causa di un incidente stradale e dice: «Lei non capirà ma io non sono in condizione di fare una guerra, se vi opponete io lascio». La risposta: «Tre giorni fa è morta mia moglie, dopo 60 anni di matrimonio. Non è il caso che le dica che capisco tutto. Vada avanti». «Si è alzato e ci siamo abbracciati», ha raccontato Bazoli.

Quell’abbraccio segna in effetti il periodo della guerra guerreggiata. «Diciamo che i rapporti furono normalizzati», precisa Carrubba. Dopo due anni di incontri, si arriverà a quello che Tamburini chiama il “cappotto”. La Comit va a Intesa. Cuccia la cede, a malincuore, come un male minore. «Parliamoci chiaro: l’aveva svilita, la Comit sotto il giogo di Cuccia era rimasta poco valorizzata», dice un osservatore di lungo corso della finanza milanese. Poco prima la banca ha respinto un’Opa ostile di Unicredito. Anzi, l’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, ha fatto naufragare l’Opa. Pare su pressione di Cuccia, pare con il benestare di Massimo D’Alema presidente del Consiglio. Pare dopo un incontro tra D’Alema e Cuccia a casa dell’attuale candidato sindaco di Roma Alfio Marchini (a lui il compito di smentire quel che scrisse Il Giornale). Intanto naufragava anche un’altra Opa, quella del Sanpaolo Imi di Torino sulla Banca di Roma guidata da Cesare Geronzi (quello che nel libro Confiteor di Massimo Mucchetti indicherà in D’Alema il proprio principale referente politico). Poi dici che il Trono di Spade è complicato.

Comit e Cariplo intanto si sposano, i rapporti non sono semplici, le rivalità accese. Se i simboli contano, la sede di Cariplo, in Ca’ de Sass, tra via Monte di Pietà e via Brera, a Milano, vede l’ufficio del consigliere delegato Carlo Messina e i light lunch per i giornalisti finanziari. Quella della Comit, in piazza della Scala, è diventata la sede di un museo, per quanto ospiti mostre di richiamo. I siti internet degli amici della Comit, con le vecchie canzoni malinconiche in milanese, fanno venire un tuffo al cuore.

L’arma più usata da Cuccia fu però la sua costola prediletta, la Banca Commerciale Italiana che tutti conoscevano come Comit

Dopo, in effetti, la partita si è fatta un po’ più semplice. Intesa si fonde con Sanpaolo Imi e Mediobanca entra in una nuova era. Prima c’è la stagione di Vincenzo Maranghi, il delfino di Mediobanca, una vita per l’istituzione. Il segno della continuità è spezzato dalle nuove regole bancarie, che rendono i soci azionisti di Mediobanca e la stessa Mediobanca in conflitto di interessi. Per ripercorrere l’uscita traumatica di Maranghi, dovuta anche alle modalità di gestione troppo “alla Cuccia”, vale la pena pescare dalla cantina dei vini buoni un Sergio Bocconi del 2007. Dove si capisce che i rapporti con Intesa erano rimasti cordiali, sì, ma non troppo. «Maranghi punta sulla fusione tra Falck e Montedison. Ma fallisce anche per l’opposizione di Capitalia, Intesa e Sanpaolo critici sul concambio», si legge. Non fu il primo contrasto, né l’ultimo dopo l’abbraccio del 1997 tra Cuccia e Bazoli. Prendiamo il caso di Alfonso Desiata. È il 2001 quando il presidente delle Generali viene defenestrato, proprio per volontà di Maranghi. Bazoli è contrarissimo: «Esprimo vivo rammarico. Non per nulla Desiata era stato scelto e voluto a quel ruolo da Enrico Cuccia», il commento maligno riportato da Giovanni Pons su Repubblica. Retroscena parlarono di un progetto di fusione Intesa-Generali, che gli fu fatale. Proprio Desiata viene evocato da Bazoli, nell’intervista a Ezio Mauro, quando parla del progetto di fusione tra Intesa e Sanpaolo. «Io avevo un buon rapporto con Enrico Salza. Avevamo un grande amico in comune, Alfonso Desiata, malato da tempo. Decidemmo di andarlo a trovare insieme: passammo un giorno insieme, ci confidammo l’idea, la discutemmo tornando a casa. Tutto è nato in auto». Poi altre scintille, come sul caso Fondiaria-Sai, con Mediobanca più favorevole a Unipol e Intesa più a Roberto Meneguzzo e Matteo Arpe. In altri casi i rapporti sono stati a tratti convergenti e a volte confliggenti. Come in Rcs, dove Bazoli e Geronzi si trovarono d’accordo sul nome “non berlusconiano” di Ferruccio De Bortoli.

È la battaglia sul Corriere che ha riacceso la rivalità. Inaspettata, in verità, perché da quando la gestione è passata all’amministratore delegato Alberto Nagel, la vecchia Mediobanca è sembrata divenire un ricordo lontano. Forse è una questione di orgoglio ferito. Ma forse c’è molto altro

Per quanto si giri attorno, è lì che si finisce per arrivare, in via Solferino. È la battaglia sul Corriere che ha riacceso la rivalità. Inaspettata, in verità, perché da quando la gestione di Mediobanca è passata all’amministratore delegato Alberto Nagel, la vecchia Mediobanca è sembrata divenire un ricordo lontano. Le partecipazioni sono sparite tranne quella di peso in Generali, è partita Che Banca!, ci sono i clienti stranieri. Rende onore Salvatore Carrubba: «Mediobanca è più piccola, è vero», e in effetti la sua capitalizzazione oggi è di 6 miliardi di euro, contro i 37 di Intesa Sanpaolo (Unicredit è in mezzo, a 18, e Generali a 20). «Ma bisogna vedere se le dimensioni contino molto. Oggi è un soggetto finanziario competitivo, che ha capito che bisogna stare sul mercato e che è andata alla ricerca di clienti stranieri e piccoli. Torna nella fisiologia della finanza. È un’istituzione referenziata e indipendente che si adegua a una situazione radicalmente cambiata rispetto al passato».

Bene. Però come spiegare il richiamo della foresta dell’operazione che al Corriere ha portato la banca a organizzare una contro-offerta rispetto a quella avanzata dall’editore Urbano Cairo? Come inquadrare un’operazione che metterà Bonomi al 45% e gli altri soci storici al 55%, in grado di condizionarlo in modo molto “mediobanchesco”? Soci tra i quali figurano Mediobanca stessa, Pirelli, Unipol-Sai e Della Valle, entrato da qualche anno e in rapporti pessimi con Bazoli.

Forse solo una questione di orgoglio. «Mediobanca si è sentita offesa dal fatto di non essere stata coinvolta da Intesa (che è azionista di Rcs e con Imi è advisor di Cairo, ndr). Intesa d’altra parte non si fidava, perché l’attuale cda di Rcs è stato voluto da Mediobanca e Fiat», fa notare un analista.

Forse però c’è dell’altro, oltre all’orgoglio. «È il segno che il percorso avviato da Nagel non è ancora concluso – commenta un altro analista -. Mediobanca non crede più ai patti di sindacato delle aziende in cui esce, ma il suo patto di sindacato continua a essere vivo. Vedremo cosa cambierà Bonomi, ma l’operazione sembra ancora una volta più politica che economica». Infine c’è chi si spinge oltre e vede la vicenda come una prova di forza di un asse che vede Mediobanca allineata a Unicredit (che ne è il primo azionista) e a Generali (dove il primo azionista è Mediobanca e da cui Intesa è uscita). La vera lotta sarebbe tra Intesa e Unicredit. Banca, quest’ultima, dove il posto di amministratore delegato è vacante dopo le dimissioni di Ghizzoni e dove rumors hanno dato in arrivo una folta lista di nomi, tra cui figura anche quello di Alberto Nagel (che si è dichiarato indisponibile). Rumors ancora più flebili vedono una fusione tra Mediobanca e Unicredit, che convince poco gli analisti. Poi, è chiaro, i giochi sono complessi, perché ci sono anche altri azionisti: in Mediobanca, per esempio, tra Mediolanum e Fininvest i Berlusconi pesano molto, eppure Silvio Berlusconi si è detto a favore di Cairo (con cui ha una lunghissima e tormentata storia di rapporti). In Unicredit i fondi esteri pesano più di quelli italiani.

In tutti i casi dall’altra parte della barricata c’è Intesa. Che di certo non è sola, ma sembra giocare più su alleanze a geometrie variabili. L’asse con il governo, per esempio, sembra solidissimo, soprattutto da quando, uscito Bazoli e tornati al sistema monistico, il presidente è Gian Maria Gros-Pietro. Che non perde occasione, a partire dagli incontri del Forum Ambrosetti di Cernobbio, per elogiare l’operato di Matteo Renzi.

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