L’annuncio Tito Boeri lo ha già fatto due volte: i nati negli anni Ottanta andranno probabilmente in pensione a 75 anni — ovvero mai — e riceveranno sostanzialmente di meno delle generazioni precedenti. Entrambe le volte, il giorno successivo è stato un putiferio e poi, entrambe le volte, come è normale in Italia, un paio di giorni dopo tutto era rientrato. Eppure nulla è rientrato. L’allarme dell’INPS è sempre lì e, anche se non ci fosse sarebbe lo stesso, perché tutti gli under 40 lo hanno intuito già benissimo quello che rischiano di essere da vecchi: gli ultimi ad aver conosciuto il benessere, i primi ad essere abbandonati dallo Stato.
Potenzialmente, quello che nel primo decennio del secolo sembrava un divario soltanto tecnologico — nativi digitali vs nativi analogici — in questo secondo decennio del XXI secolo è diventato molto di più, almeno nella percezione dei protagonisti. Il divario è economico, esistenziale, psichico. È proprio su questo divario che Franco Bifo Berardi e Massimiliano Geraci hanno costruito il loro romanzo, intitolato Morte ai vecchi e pubblicato da Baldini &Castoldi giovedì 26 maggio.
«La questione della pensione e della dimensione sociale del problema è, paradossalmente, molto lontana dal nostro romanzo», racconta Bifo. «È una storia in cui il tema della guerra civile imminente è in primo piano — qualcuno pensa, di fronte a una banda di quattordicenni che uccidono novantenni che continuano a lavorare, che sia responsabilità dell’Internazionale Precaria, una fantomatica organizzazione che sta cominciando la guerra contro i vecchi — ma in realtà quello che interessava a me e Massimiliano, era proprio la componente cognitiva, percettiva, psichica, sensibile».
Ovvero?
Il fastidio reciproco che si procurano a vicenda due tipi di corpi che hanno dei cervelli che funzionano in maniera incompatibile. Questa è la chiave di lettura del nostro romanzo. Per quanto riguarda l’opposizione reale tra le nostre due generazioni, io penso che mettere una contro l’altra la generazione che sta andando in pensione contro quella che in pensione non ci andrà mai, per quanto sia vera come percezione, essa sia una costruzione fuorviante e pericolosa.
A chi serve?
Al potere economico, che ci ha lavorato e alla fine è riuscito a contrapporre queste due fasce generazionali. La verità è che io, che ho 67 anni, e sono andato in pensione, quando ho firmato il mio contratto, dalle clausole risultava che sarei andato in pensione a 58 anni. E andava benissimo, perché se io fossi andato in pensione 7 anni fa, qualcuno, per esempio lei, avrebbe potuto prendere il mio posto.
Invece?
Invece, in questa maniera, abbiamo assistito all’aumento della disoccupazione prodotta dal prolungamento degli anni di lavoro, il che fa sì che quell’entità che io continuo a chiamare il Capitale, ma che possiamo chiamare in mille altri modi, ha pagato uno stipendio solo — a me — invece che pagare la mia pensione e lo stipendio a lei. Questo crea delle condizioni in cui la grande maggioranza della forza lavoro giovanile è disposta a condizioni di lavoro spaventose, precarie. Perché ci siamo noi che continuiamo a occupare il loro posto. Ecco, tornando all’immagine del pranzo in famiglia, io le consiglio di non ammazzare i suoi genitori, perché non sono colpevoli di niente.
Sì, anche perché se posso fare questo lavoro è anche perché, se mai dovessi trovarmi nella merda — basta dover andare dal dentista o avere a che fare con una spesa imprevista — so che posso chiedere aiuto ai miei genitori…
Certo, ma sta per finire anche quello. Perché quando finiscono i patrimoni accumulati dalle ultime due generazioni, il gioco si rompe. La vostra generazione non è in larga misura più in grado di accumulare proprietà…
Sì, infatti erediteremo le vostre proprietà…
Certo, ma resta il fatto che, chi tra voi avrà questa fortuna, rischia di essere tra gli ultimi. Vivremo una fase di contrazione dei patrimoni familiari.
Chi ha creato queste condizioni? Come hanno fatto a trasformare la lotta di classe in conflitto intergenerazionale?
Bella domanda. La risposta è per gran parte di tipo culturale e di tipo quasi psichico. Io non credo che sia stato il frutto di qualche grande decisione — io credo più all’esistenza dei processi molecolari e lenti piuttosto che alle svolte improvvise — però è vero che a un certo punto ha preso forza l’idea che la mia generazione avesse avuto troppo perché avevamo ottenuto la possibilità di lavorare di meno e di guadagnare di più. Per questo, da un certo punto in poi, il senso comune ci ha convinto del fatto che se vogliamo una società più sana dobbiamo lavorare di più e guadagnare di meno. Il risultato è che lavoriamo molto di più e guadagnamo molto di meno. Ma c’è un’altra conseguenza: la stagnazione si è di fatto trasformata in condizione permanente. Quindi non è affatto vero che si sta meglio in questa maniera. Si sta peggio. Si sta tutti peggio. E contemporaneamente ci arrivano notizie dai principali centri di studi del mondo che la tecnologia oggi sarebbe in grado di sostituire con robot quasi la metà del lavoro esistente.
È una disgrazia?
No, per non lo è. Non lo è affatto. Questa è la condizione di una ricchezza e di una liberazione. Ma certo è che, fino a quando ci spariamo tra noi, continueremo a lavorare sempre di più e a guadagnare sempre di meno.
Come facciamo a invertire la dinamica e allearci?
Io ho l’impressione che ci siano parole d’ordine e indicazioni che facilmente potrebbero funzionare come motore di alleanza tra le due generazioni di cui parliamo: partendo dalla riduzione drastica dell’orario di lavoro. Questa è una cosa che penso da quando sono ragazzino, da quando, con Potere Operaio, combattevo per l’abbassamento dell’orario di lavoro e per l’esistenza di un salario minimo. Ma anche se è vecchia, questa intuizione mantiene una forza e una validità straordinaria. Le politiche neoliberiste hanno di fatto incrementato le condizioni per una libertà possibile dal lavoro. Ma contemporaneamente hanno creato le condizioni per una schiavitù crescente.
C’è qualcuno, e penso per esempio a Paul Mason, che indica nella tecnologia la potenziale arma che permetterà al capitalismo di superare se stesso, come se fosse una dinamica autoreallizzante. Lei è d’accordo?
È evidente che questa dinamica non si svolge spontaneamente. E infatti Mason, che mi piace molto per mille ragioni, non mi convince del tutto in quel suo ottimismo di fondo. Lui dice sostanzialmente che il capitalismo è giunto a una fase talmente autodistruttiva che, quasi automaticamente, è destinato a trascendere nella fase postcapitalista. Però non sta andando così.
Come sta andando?
Se guardiamo l’ascesa di Trump e quella dei partiti fascisti e nazionalisti europei, la questione sta andando nella direzione esattamente contraria. La disperazione, che non è mai buona consigliera, sta permettendo il ritorno dell’orgoglio bianco, dell’orgoglio razzista, di quel pensiero lubrico che pensa che i nostri mali derivino dai margini e dai fuori i margini, ovvero dai migranti, dai profughi, dai deboli in generale. E invece è assolutamente falso, anche perché gli immigrati, per esempio, generalmente sono i settori più produttivi.
Come si può fermare questa dinamica?
Credo che sia troppo tardi. Il caso americano lo dimostra. Che Trump vinca o perda a novembre, ha cambiato per sempre il linguaggio politico e sociale americano.
E quindi, cosa dobbiamo fare?
Qui è meglio che io mi taccia e che lasci parlare la fantasia letteraria.
Restiamo sulla politica: negli Stati Uniti e in Inghilterra ci sono due vecchi politici, Jeremy Corbyn e Bernie Sanders che, con vecchi discorsi socialisti e con un modo vecchio di comunicare stanno conquistando una grande audience soprattutto tra i giovani. Come lo spiega questo paradosso?
Io credo che la risposta sia, più che politica, estetica ed etica. Io ho l’impressione che i ventenni stiano guardando ai loro genitori pensando «Io non voglio finire così». Non voglio finire così miseramente competitivo, non voglio finire così depresso e paranoico, insomma così sofferente e così imbruttito. Credo che sia un rifiuto etico, anche comprensibile, e anche un rifiuto estetico. Ma per me la cosa più interessante non è tanto la campagna di Sanders o la sfida di Corbyn, che purtroppo hanno ben poche speranze. Quello che mi interessa è capire che fine faranno questi giovani, vedere dove andranno e cosa faranno dopo questa esperienza.
Cosa spera?
Che questa generazione di venti-trentenni diventi la vera Sylicon Valley, che diventino i programmatori del mondo del futuro. È lì che bisogna agire. Più che nella politica, bisogna agire nella concezione culturale e sociale della macchina globale. Questo è il punto del prossimo futuro.
Non crede nella politica?
Non esattamente. Non credo nel valore decisivo della politica. Credo che la politica abbia una capacità di decisione di invasione nella realtà molto inferiore rispetto a quanto noi le attribuiamo e rispetto al passato. Obama ne è la prova. Obama che si è presentato alle elezioni con la frase Yes, we can, una strana frase da dire per uno che in teoria gareggia per diventare l’uomo più potente del mondo. Eppure non è così, perché non ha potuto niente: non ha potuto chiudere Guantanamo, né porre fine alle guerre in Medioriente, né intaccare gli interessi delle grandi aziende finanziarie, non ha potuto niente. Quello che ha potuto fare è solo nella sfera del simbolico, che è qualcosa, ma è poco. Obama è un grande politico, ma è un grande politico impotente. Quindi, piuttosto che pensare ossessivamente alla sfera politica, io preferisco pensare alla importantissima questione del mutamente delle scelte fondamentali della tecnologia. È lì che si gioca davvero il futuro sociale.