Stiamo diventando un Paese di astensionisti. Per almeno trent’anni gli italiani sono andati a votare in massa, partecipando alle elezioni con percentuali superiori al 90 per cento. «Oggi non è più così, basta leggere i dati». Federico Fornaro sa cosa dice. Senatore del Partito democratico, recordman di presenze a Palazzo Madama ed esperto di flussi elettorali, ha da poco pubblicato per Epoké il saggio “Fuga dalle urne”. Un lungo studio che ripercorre la storia della partecipazione elettorale nel nostro Paese, dall’Unità d’Italia ai giorni nostri. E le conclusioni non sono positive. Se l’affluenza alle urne è un indicatore del corretto funzionamento del rapporto tra cittadini e istituzioni, è arrivato il momento di preoccuparsi. «Se nel 2013 si è registrata la più bassa percentuale di votanti nella storia repubblicana alle elezioni Politiche – spiega Fornaro – è evidente che qualcosa non funziona».
Qualcuno potrebbe non essere d’accordo. È davvero così importante andare a votare in massa? Alcuni Paesi saldamente democratici registrano tassi di partecipazione al voto nettamente inferiori ai nostri. Eppure nessuno denuncia la crisi dei loro sistemi politici. Il riferimento è sempre agli Stati Uniti d’America. «C’è una corrente di politologi che la pensa così» ammette Fornaro. «Mi limito a dire che tra una nazione con una elevata percentuale di votanti e una con un basso livello di affluenza ai seggi, non ho alcun dubbio nell’individuare nella prima un sistema politico con un miglior funzionamento della democrazia».
Intanto anche gli italiani stanno perdendo la voglia di andare a votare. La spiegazione, a sentire Fornaro, può essere ricercata indietro nel tempo. Il libro racconta in dettaglio il periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia. «Parliamo di oltre un secolo e mezzo fa, eppure in quella fase c’è un elemento di grande modernità». Qual è il peccato originale? Le classi dirigenti dell’epoca decidono di escludere dalla vita pubblica gran parte della popolazione maschile adulta. Nel 1860 si arriva a restringere l’elettorato potenziale a circa il 2 per cento della popolazione. «Quando parliamo dello scarso senso civico italiano, non possiamo dimenticare quella scelta. Per lungo tempo una larga parte della popolazione è stata, di fatto, esclusa dalla cittadinanza. Un problema le cui conseguenze paghiamo ancora adesso».
Il passaggio alla seconda Repubblica si accompagna all’emergere di una nuova tipologia di elettore: l’astensionista intermittente. Sono i votanti che decidono se recarsi ai seggi a seconda dell’elezione
Dopo la seconda guerra mondiale, cambia tutto. Il trentennio dal 1946 al 1976 «è l’età dell’oro della partecipazione elettorale». In questi anni le percentuali di affluenza alle urne superano stabilmente il 90 per cento. «I motivi sono diversi – spiega Fornaro – Anzitutto c’è una forte voglia di partecipazione dopo venti anni di regime fascista. Senza dimenticare l’introduzione del suffragio universale». Alle amministrative del 10 marzo 1946 votano per la prima volta anche le donne. E poi c’è il ruolo dei partiti politici. «Hanno svolto una vera e propria “educazione alla democrazia”. Senza considerare che in un clima di scontro ideologico molto forte, non andare al voto equivaleva ad essere disertori in guerra». Sono decenni in cui l’astensionismo rimane un dato di fondo. Con valori minimi e, in un certo senso, fisiologici.
Nel 1979 si rompe qualcosa. «Le elezioni di quell’anno si caratterizzano per un significativo e fino allora sconosciuto aumento dell’astensionismo». Dal 93,4 per cento la percentuale dei votanti scende al 90,6 per cento. Quasi il 3 per cento in meno. «Inizia un trend che proseguirà per tutti gli anni Ottanta». Parallelamente al declino dei grandi partiti, cambia anche la natura dell’astensionismo. «In questo periodo emerge la figura degli astensionisti consapevoli – spiega Fornaro – Cittadini che non vanno a votare per dare un segnale politico». Il passaggio alla seconda Repubblica si accompagna all’avvento di una nuova tipologia: l’astensionista intermittente. Sono gli elettori che valutano se recarsi ai seggi a seconda dell’elezione. Come spiega il saggio, si differenziano a loro volta in “selettivi” (votano solo alle elezioni più importanti, di norma le Politiche) e “fluttuanti” (la decisione di voto non segue un preciso criterio). «Si tratta di persone che hanno maturato la propria scelta con attenzione e dopo essersi adeguatamente informate». Di fatto, anche il non voto diventa un’espressione di voto.
«Tre anni fa la percentuale dei votanti è crollata al 75,2 per cento». Considerando le elezioni Politiche, è il dato più basso dell’Italia repubblicana. In pratica un italiano su quattro ha deciso di disertare le urne
Ma il vero terremoto è più recente. Il libro individua la “tempesta perfetta” della disaffezione al voto nelle Politiche del 2013. «Tre anni fa la percentuale dei votanti è crollata al 75,2 per cento». Considerando le Politiche, è il dato più basso dell’Italia repubblicana. In pratica un italiano su quattro ha deciso di disertare le urne. «Contemporaneamente – spiega Fornaro – si sono combinate tendenze di lungo periodo, come il progressivo aumento dell’astensionismo e il declino dei partiti e delle ideologie, e fattori di breve periodo generati da una crisi senza precedenti per durata e intensità». Oggi com’è la situazione? «C’è un 40 per cento di elettori costanti» spiega Fornaro. «Un gruppo di cittadini che non ha dubbi su chi votare. A questi segue un altro 40 per cento di astensionisti intermittenti, in crescita. Infine un 20 per cento di astensionisti cronici». Sono quelli che non hanno alcuna intenzione di andare alle urne. Senza dubbi.
Il tema dell’astensionismo è ancora sottovalutato. I rischi di questa tendenza sono evidenti. Una bassa partecipazione al voto non rischia di mettere in crisi le istituzioni? «Un basso livello di votanti – spiega Fornaro – pone certamente un problema di legittimazione, ma anche di autorevolezza». Nei prossimi mesi si avranno le prime conferme. A giugno milioni di italiani saranno chiamati al voto alle amministrative, in autunno sarà la volta del referendum costituzionale. Per correre ai ripari, si era pensato di allungare l’apertura dei seggi anche al lunedì. Ipotesi poi tramontata. «Personalmente ero favorevole – racconta il senatore democrat – Il problema dell’astensionismo è reale, come si fa a giudicare negativamente una scelta che favorisce la partecipazione? Ma certo non è questa la soluzione del problema. La gente non diserta le urne perché non ha tempo di andare a votare. Bisogna affrontare il tema della partecipazione. I partiti e le istituzioni sono chiamati a ripensare loro stessi, le loro forme e i loro processi decisionali».