È la madre di tutte le vendite perse. È l’out-of-stock ed è responsabile di 2,4 miliardi di euro di vendite perse nel 2015 (il 4,7% di quelle totali) nel sistema del largo consumo. Da ECR Italia una serie di strumenti che aiutano ad inserire nei processi aziendali le pratiche per una ottimale disponibilità a scaffale dei prodotti.
Per questo da anni si parla di OSA, Optimal shelf availability. I primi documenti ECR Europe risalgono al 2003, ma, almeno in Italia, sono rimasti lettera morta. Almeno fino a un paio d’anni fa, quando ECR Italia ha ripreso l’iniziativa per portarla all’attenzione delle aziende della filiera del largo consumo, prima con un’indagine in collaborazione con IRi sul comportamento dei consumatori di fronte allo scaffale vuoto, poi dando vita al Barometro per misurare puntualmente lo stato di salute dei prodotti a scaffale. Infine con il Monitor della supply chain per integrare i dati di vendita con quelli di stock a punto vendita. E qualcosa comincia a muoversi.
L’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte è stato il convegno di GS1 Italy “Scaffali vuoti? Vendite perse e clienti insoddisfatti. Il coraggio di chi OSA”, nel corso del quale è stato distribuito il Blue Book di sintesi del lavoro fin qui svolto.
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«L’Optimal shelf availability non è una questione squisitamente logistica, come è stata considerata per molto tempo», nota Bruno Aceto, ceo di GS1 Italy. «Ha viceversa ricadute importanti sul piano commerciale, sui risultati di vendita e sulla soddisfazione dei clienti e merita di essere affrontato in ottica strategica e collaborativa da industria e distribuzione».
Di chi è la responsabilità?
Si tratta di ricadute non da poco, come osserva Marco Colombo, solutions & innovation directorIRi riprendendo i dati del barometro OSA, visto che in 3 shopping trip su 7 viene segnalata almeno un prodotto in rottura di stock. Situazione non dissimile da ciò che avviene negli Stati Uniti, dove il 75% dei consumatori dichiara di aver dovuto gestire l’assenza di un prodotto della lista della spesa, in Germania e in Francia, dove rispettivamente l’86% e l’82% dei consumatori ha avuto almeno un’esperienza di out-of-stock nell’ultimo anno. Vero è che la reazione di fronte all’inaspettata assenza di prodotto spinge a cambiare punto vendita solo il 10% dei clienti italiani (contro il 31% di quelli a stelle e strisce), ma il 25% cancella l’acquisto (24% in Usa), il 25% cambia categoria, il 23% cambia marca (insieme fanno il 26% negli Stati Uniti) e il 17% trasla sulla stessa marca nella categoria (19% oltreoceano), mettendo a rischio sia l’insegna (35% in Italia, 55% in Usa) sia la marca (73% contro il 45%).
«Nella percezione del cliente, però – spiega Colombo – la responsabilità della mancanza di prodotto ricade quasi completamente sul punto vendita, tanto che l’out-of-stock ha valore rilevante nella percezione del negozio riguardo al livello di servizio e la possibilità di trovare i prodotti è una componente della convenienza».
Cambiando prospettiva e guardando alle dinamiche interne della filiera, Colombo segnala che dal Barometro di ECR Italia si rileva, dopo un lieve peggioramento dell’out-of-stock nel 2015rispetto al 2014 (al 3,7% dal 3,4%), un trend decisamente positivo nei primi mesi di quest’anno. Negli ultimi tre mesi, infatti, tutti i reparti riducono le percentuali di rotture di stock. In particolare petcare, drogheria chimica e alimentare mostrano un trend positivo. In lieve peggioramento l’ortofrutta. Il Barometro fornisce altre indicazioni. Per esempio che occorre fare una distinzione tra out-of-stock totale e parziale, come indicatori di ‘zero vendite’ o vendite eccezionalmente basse, spostando l’attenzione dallo scaffale alla riserva; che esiste una correlazione tra rotazione e percentuale di rottura di stock («Nell’ultimo anno le 20 categorie più rilevanti hanno mostrato trend più che positivi rispetto al resto delle merceologie»); che, infine, ogni gruppo distributivo mostra performance specifiche. «I distributori, per struttura ed organizzazione, mostrano differenti tassi di out-of-stock e trend. È necessario affrontare la soluzione del problema adottando diverse tattiche in funzione delle performance di partenza e dello stato di maturità del retailer», sottolinea Colombo.
Accuratezza degli inventari e qualità totale
Guardare all’OSA nella sua completezza è quanto invita a fare Colin Peacock, shrink & OSA group strategy coordinator ECR Community in Europe. La disponibilità a scaffale può infatti avere un valore diverso se misurata con gli occhi del consumatore (attraverso metodi crowd sourcing presenti sul mercato) o con strumenti tradizionali, con differenze a volte anche rilevanti. Non disponibile è anche il prodotto posizionato troppo in alto sullo scaffale, quello danneggiato, oppure quello chiuso a chiave in una vetrina o infine quello con data di scadenza troppo ravvicinata. Senza considerare la rivoluzione digitale: «Quanto più le vendite si muovono verso l’online, con il click & collect – afferma Peacock – il problema della disponibilità a scaffale e delle sue conseguenze diventa estremamente visibile ai top manager della distribuzione. E questo tema sposta il discorso sull’accuratezza degli inventari. Attualmente i dati suggeriscono che il tasso di accuratezza varia dal 35% al 62%, il che significa che tra il 65% e il 38% delle registrazioni sono sbagliate. Dobbiamo concludere che il problema è difficile da misurare e solo un approccio olistico può determinare un miglioramento significativo».
Il riferimento è al tema della qualità totale, che dal settore meccanico può essere trasferito al largo consumo. «Occorre pensare – afferma lo studioso – al costo totale della qualità dello scaffale e all’individuazione di una funzione, che nel nostro caso può chiamarsi chief on shelf availability officer, da cui dipende la responsabilità ultima della misurazione della qualità».
Secondo Peacock sono cinque le azioni da considerare nel segno dei principi della qualità.