Quesiti linguisticiPerché si dice “parlare a vanvera”? Risponde la Crusca

Alle spalle ci sarebbe il suono fan-fan, tipico delle trombe militari. Ma la vanvera, o “piritera”, era anche l’oggetto simile all’antico prallo, che risolveva i disturbi gastrointestinali di re e principi durante i lunghi banchetti o le passeggiate

In collaborazione con l’Accademia della Crusca

«Parlare a vanvera. Parlare a caso, senza considerare quel che si dica. Temere loqui. Dicesi anche: parlare in aria. Cioè: senza fondamento». Così scrive il poligrafo toscano, Francesco Serdonati, vissuto tra il XVI e il XVII secolo, alla lettera P dei suoi Proverbi (successivi al 1610, cfr. Fiorelli 1999). La presenza dell’espressione alla lettera P dei Proverbi di Serdonati è significativa poiché ci dice che, a quell’altezza cronologica, la locuzione avverbiale a vanvera veniva già percepita insieme al verbo parlare: «senza senso, a caso, senza fondamento, senza riflettere» sono i significati principali (DELI; Craici 2001, p. 222); e ancora si può dire: «senza criterio», «alla carlona» in contrapposizione a espressioni come «con tutte le virgole» e simili (Lapucci 1969, p. 255).

Proprio “parlare” e “fare” sono le forme verbali d’accompagnamento più ricorrenti: «Fare qualcosa, parlare a vanvera: agire, parlare a caso, senza riflessione» (Radicchi 1985, p. 193). «Non usavan i vecchi nostri far le cose a vánvera» (Alessandro Allegri, Rime, 34, citato dal Vocabolario della Crusca). Tuttavia non sono queste le uniche, a differenza di quanto si legge in alcuni dizionari di modi di dire della lingua italiana (Quartu-Rossi 2012, p. 286).Vanvera, infatti, non esistendo in italiano come sostantivo ma solo in quanto parte della locuzione avverbiale a vanvera (DELI; GRADIT; l’Etimologico), si lega, di necessità e di volta in volta, a un verbo che si può riferire ai contesti più vari, ben al di là dei semplici dire e fare: si può, quindi, cucinare a vanvera; ci si può pettinare o vestire a vanvera; si può studiare a vanvera, cicalare a vanvera,correre a vanvera, tagliare a vanvera (per quest’ultimo,cfr. G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874, p. 247); e a vanvera si può poetare o recitare («in queste rime a vanvera dettate», Mattio Franzesi, Rime burlesche, anch’egli menzionato dagli accademici della Crusca). È possibile inoltre tacere o pensare a vanvera (cfr. la vignetta di Altan pubblicata sull’“Espresso” il 2 gennaio del 2014: pensare a vanvera); e ancora vanverare o vanvereggiare (GDLI).

L’uso è insomma vario e riscontrabile in diverse situazioni appartenenti alla lingua di tutti i giorni, ma anche alla letteratura, come prova l’occorrenza in testi di autorevoli scrittori dell’Otto-Novecento (da Carducci a De Roberto, da Bacchelli ad Arbasino, cfr. GDLI; Turrini et al. 1995). La prima attestazione, tuttavia, è più antica e risale alla metà del XVI secolo: av. 1565, secondo il DELI, che l’attribuisce a Benedetto Varchi, il quale ne circoscrive l’impiego al territorio fiorentino («dire, come noi diciamo, a vanvera», cfr. DELI, s. v. vanvera). Ma si dovrà tenere conto ancor prima del terminus ante quem della morte di Mattio Franzesi, individuato nell’anno 1555; senza dimenticare la commedia Il figliuol prodigo di Giovan Maria Cecchi, rappresentata nel 1570, dove la locuzione compare con il particolare valore di «in disordine, in confusione» riferito alla casa di Argifilo (GDLI; G.M. Cecchi, Commedie, a cura di G. Milanesi, 1855, I, p. 11).

Di a vanvera sono note varianti regionali, in particolare nel pisano e nel lucchese, dove si registrano a cianfera (Malagoli 1997, s. v.) e a bámbera (cfr. Lippi, Malm., VIII 56, citato da Gherardini, Suppl., s. v.). Quest’ultima deriva probabilmente dal gioco della bambàra, che pare di origine spagnola (la parola è piana, come dimostra la rima con «s’impara» nella poesia Le memorie di Pisa di Giuseppe Giusti, vv. 41-44, per cui cfr. Giusti 2010, pp. 220-224) e che consiste in un gioco di carte paragonabile alla primiera («il Biscioni descrive minutamente questo giuoco nelle Note al Malmantile, v. 1, p. 269, col. 2»: v. Gherardini,supra). La bambarría, in particolare, indica un colpo fortunato e vincente (il contrario del proverbio che dice: Non colse, ma fu un bel colpo). A questo si ricollega il secondo valore semantico dell’espressione, che non significa soltanto «a caso, senza discernimento» e così via, ma anche «senza prendere la mira» (trarre o tirare a vanvera: cfr. le Lezzioni di M. Benedetto Varchi, accademico fiorentino…, 1590, p. 108, nel brano del “saettatore”; e cfr. anche Le opere di Bernardo Davanzati ridotte a corretta lezione …, per cura di E. Bindi, 1853., II, p. 166).

Esiste quindi un ampio ventaglio d’usi, espressivo e alquanto fantasioso, dovuto alla vivacità di una parola variamente adattabile e retoricamente efficace per il suo andamento allitterante e per l’origine onomatopeica. Di «onomatopea romanza» parla L’Etimologico di Nocentini-Parenti, che alla voce vanvera scrive così: «variante con consonante sonora di fànfera, che deriva dalla stessa sequenza imitativa di fànfano, fanfara e fanfarone» (quest’ultimo dallo spagnolo fanfarrón: GDLI). È possibile dunque ipotizzare una retroformazione da fanfarone con spostamento d’accento e alterazione fonetica della sillaba centrale. Analogamente il Duro/Treccani conferisce a fànfera, a cui rimanda da vànvera, un’origine di tipo espressivo.

Alle spalle vi sarebbe il suono fan-fan, tipico delle trombe militari (Vatielli 1941, p. 300): un «dare fiato alle trombe», insomma, o un «parlare in aria», per riprendere la definizione di Serdonati, che ha dato luogo a interpretazioni colorite e sconce, come quella della piritera (o vanvera, appunto), oggetto simile all’antico prallo e molto in voga presso gli aristocratici veneziani e napoletani del Seicento e oltre. A seconda dell’impiego in ambienti pubblici o privati la vanvera poteva essere da passeggio o da alcova e risolveva i disturbi gastrointestinali di re e principi. Parlare a vanvera si potrebbe anche dire nel senso di Lasciare ire le parole come l’asin le peta.

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