Dicono gli esperti che per giudicare i motivi della prossima uscita da Unicredit del numero uno Federico Ghizzoni, ormai praticamente sicura dopo l’incotro degli azionisti di inizio settimana, la prima cosa da fare è dimenticarsi di guardare l’utile. Nella trimestrale pubblicata il 10 maggio l’utile è stato di 406 milioni di euro, in discesa di un buon quinto rispetto al primo trimestre dell’anno precedente ma superiore alla media delle attese degli analisti (379 milioni, con forti variazioni tra una stima e l’altra). Se ci sarà un ribaltone al vertice è perché i coefficienti patrimoniali si stanno abbassando, il piano di cessioni va troppo al rilento e la necessità di un aumento di capitale, che pure era stata impedita a Ghizzoni, diventa ogni giorno più concreta. Con forte disappunto degli azionisti, che vedono in prospettiva le proprie quote diluirsi. Chiunque sostituirà Ghizzoni, dunque, dovrà ripartire da questi problemi.
Cominciamo però a capire di che si sta parlando. Quello che bisogna guardare è la patrimonializzazione di Unicredit. L’indice più importante è il Cet1, ossia il Common Tier Equity 1 ratio, che si calcola dividendo il capitale ordinario versato per le attività ponderate per il rischio. Si ottiene una percentuale: per le regole della Bce in tutta Europa non può essere inferiore all’8% e per le banche italiane non può essere inferiore al 10,50 per cento. A fine marzo quello di Unicredit è sceso di una decina di punti base rispetto a dicembre. Oggi è pari al 10,85%, è inferiore alla media delle pur incrinate banche italiane (il valore in Borsa delle quali negli ultimi sei mesi è sceso complessivamente del 40 per cento, mentre Unicredit il 49%) e di poco superiore al valore limite richiesto dalle autorità di vigilanza europee.
Perché è un problema la patrimonializzazione? Perché se è bassa non si va lontano. Il capitale è indice non solo della capacità della banca di erogare prestiti e mutui ma anche di porsi a garanzia dei depositari. In altre parole, il Cet1 ratio ci dice con quali risorse una banca riesce a garantire i prestiti concessi ai clienti e i rischi rappresentati dai crediti deteriorati (o non performing loans).
Se Ghizzoni è in uscita è perché i coefficienti patrimoniali si stanno abbassando, il piano di cessioni va troppo al rilento e la necessità di un aumento di capitale, che pure era stata impedita a Ghizzoni, diventa ogni giorno più concreta
Ora, Unicredit sta vedendo scendere il proprio Cet1, nonostante nel suo piano industriale ne avesse previsto una crescita fino al 12,6% entro il 2018. Rispetto a un anno prima, va detto, la crescita c’è stata, ed è stata pari a 75 punti base, ma evidentemente la soglia attuale è considerata a rischio. Quello che pensano gli analisti è che i livelli di utile attuali non bastano a far salire il coefficiente patrimoniale. Uno dei problemi è che, con i tassi di interesse della Bce ai minimi storici, per le banche fare utili è diventato un affare maledettamente difficile. Oggi la banca di piazza Gae Aulenti fa profitti, ma la loro crescita è inferiore alla crescita dei rischi legati agli impieghi.
Se le cose vanno male è infatti perché sono aumentate le attività ponderate per il rischio. Nel gergo della finanza si chiamano Rwa, che sta per Risk-Weighted Assets. Il loro ammontare è fondamentale perché fanno sì che una parte del patrimonio debba essere accantonata a fronte degli impieghi rischiosi e non possa quindi essere impiegata in attività rischiose. Se le Rwa sono alte (+3,8 miliardi rispetto a dicembre) c’entra molto il fatto che i crediti deteriorati, cioè sofferenze e incagli, sono altissimi. Un male che in Italia non riguada certo la sola Unicredit. Ma la seconda banca italiana ne ha in pancia un mare: ben 79 miliardi. Di questi, 38 milioni sono i crediti deteriorati netti (cioè al netto delle coperture), in calo del 7% in un anno, mentre le sofferenze (la parte peggiore dei crediti inesigibili, quelli dati per persi) nette sono pari a 20 miliardi e in leggera crescita. Tanto che si parla di un intervento del fondo Atlante per rilevarne alcuni. Atlante, partecipato da banche, assicurazioni e Cdp, ha già effettuato il sudatissimo aumento di capitale di Banca Popolare di Vicenza, togliendo le castagne dal fuoco a Unicredit, che era il garante dell’aumento. Salvataggio che non ha impedito una figuraccia per la banca milanese.
Quello che pensano gli analisti è che i livelli di utile attuali non bastano a far salire il coefficiente patrimoniale. Uno dei problemi è che, con i tassi di interesse della Bce ai minimi storici, per le banche fare utili è diventato un affare maledettamente difficile. Per questo serve o un aumento di capitale o un’accelerazione sulle cessioni
Per tornare a far crescere il Cet1, le strade sono due: fare un aumento di capitale o cedere delle partecipazioni. La prima strada è stata di fatto impedita a Ghizzoni. Se il numero uno della seconda banca italiana nei giorni scorsi ha continuato a dire che non ce n’era bisogno, uno dei motivi è che in ogni caso non avrebbe potuto chiedere agli azionisti e al mercato di farne una nuova. Basta una rapida occhiata alla storia di Unicredit per capire quanto siano stati imponenti i tre aumenti di capitali che sono stati resi necessari nell’ultimo decennio e in particolare tra il 2009 e il 2012: uno sforzo di circa 15 miliardi di euro per far fronte alla crisi finanziaria del 2008 e successivamente a quella dei debiti sovrani del 2011 (l’anno dello spread a 500 e della lettera della Bce che portò alle dimissioni del governo Berlusconi). Ghizzoni ha sempre detto che sarebbero bastate le cessioni per rimettere i conti a posto. Ma l’operazione più importante, la fusione della società di investimenti Pioneer Investments con Santander, sta andando a rilento, a un anno dal raggiungimento di un primo accordo. Se gli analisti stanno vedendo positivamente un cambio al vertice di Unicredit è perché pensano che il suo successore sarà più aggressivo sul fronte delle vendite. Potrebbe, per esempio, spingere di più sulle cessioni di attività nell’Europa centrale e orientale, in Austria e Germania. Dopo l’accordo per la vendita della banca ucraina Ukrsotsbank alla russa Alfa Group, il gruppo ha fatto sapere che le cessioni nell’area sarebbero finite.
Proprio la vendita di Ukrsotsbank fa però capire quale siano i rischi di vendere oggi: una svendita, che non produce alcun beneficio al Cet1. Così riportava Il Sole 24 Ore all’indomani della vendita dell’istituto ucraino: «L’operazione avrà un impatto sostanzialmente neutro sul Cet1 ratio del gruppo bancario grazie al deconsolidamento delle attività ponderate per il rischio. A causa del forte deprezzamento della valuta ucraina però l’operazione, una volta completata, avrà un impatto negativo di 652 milioni di euro sul bilancio della banca italiana». Vendere potrebbe quindi non servire a molto. Né, evidentemente, è considerato risolutivo il drastico taglio dei dipendenti deciso dal piano industriale: 18.200 addetti da lasciare a casa entro il 2018, di cui 6.900 in Italia.
Le cessioni sono importanti, ma svendere non servirebbe a molto. Né, evidentemente, è considerato risolutivo il drastico taglio dei dipendenti deciso dal piano industriale: 18.200 addetti da lasciare a casa entro il 2018, di cui 6.900 in Italia
Per questo si sta rafforzando la strada di un nuovo aumento di capitale. Lo ha riportato anche una nota di martedì 17 maggio di Banca Akros. «Mentre un cambiamento al timone dell’istituto potrebbe rilanciarne le strategie – è il commento – un aumento di capitale ai prezzi correnti sarebbe altamente diluitivo per gli azionisti». Gli analisti hanno confermato il giudizio “buy”, perché il rapporto tra il valore di mercato e il patrimonio netto resta basso, a quota 0,4.
La parola ora spetta agli azionisti. Quelli che si sono trovati lunedì per decidere di porre fine all‘era di Federico Ghizzoni sono i vice presidenti Vincenzo Calandra e Fabrizio Palenzona, con il terzo vice, Luca Cordero di Montezemolo, collegato al telefono. Montezemolo, presidente di Alitalia, controllata dalla compagnia di Abu Dhabi Etihad, è il rappresentante del primo azionista della banca, il fondo degli Emirati Arabi Uniti Aabar. Il azionista è il fondo americatno Blackrock. E dopo Cariverona al quarto c’è il fondo sovrano libico. Ci sono poi altre fondazioni, come Crt e Carimonte e investitori privati come Caltagirone. Uno spaccato che rende l’idea di quanto sia difficile trovare un punto di vista comune su una banca che, d’altra parte, è il risultato di moltissime fusioni di banche diverse tra loro in Italia e all’estero e che viene considerata per questo una delle più difficili da amministrare.
Tra i nomi per i possibili sostituti di Ghizzoni ci sono, riporta Banca Akros, Jean-Pierre Mustier (ex capo di SocGen e del corporate and investment banking di Unicredit, poi passato a Tikehau), Marco Morelli (vice presidente per l’Europa di Bank of America Merrill Lynch e presidente della filiale italiana ed ex direttore finanziario di Monte dei Paschi di Siena). Ma ci sono anche Carlo Cimbri, ad e direttore generale di Unipol e Gaetano Miccichè, presidente di Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo). È circolato anche il nome di Alberto Nagel, ad di Mediobanca. Anzi, tra i rumors circola anche la voce di una fusione tra Unicredit e Mediobanca, che in queste ore si stanno muovendo sullo stesso fronte (e contro Intesa) per la battaglia per il controllo del Corriere della Sera. L’ipotesi era già circolata nel 2013. Per gli analisti, tuttavia, una fusione avrebbe poco senso industriale. Entrambe hanno un rapporto tra il valore di mercato e il patrimonio netto basso e, viste le ridotte dimensioni di Mediobanca in confronto a Unicredit, una sua incorporazione non cambierebbe molto per la struttura della seconda banca italiana.