Virzì, La pazza gioia è una fiera del luogo comune

Esce nei cinema il 17 maggio, si intitola La pazza gioia e tenta di strappare qualche lacrima con la solita versione, tranquillizzante e inerte, dei "matti contenti"

È ufficiale, lo hanno scritto tutti, persino noi: il cinema italiano ha trovato la soluzione per tornare grande come i tempi che furono. Le prove sono davanti agli occhi di tutti e portano i nomi di Non essere cattivo, di Lo chiamavano Jeeg Robot, di Perfetti sconosciuti, di Veloce come il vento, di Suburra. È proprio rinato, e a ben vedere era più semplice del previsto. Bastava lavorare su dei progetti che muovessero dall’avere qualcosa veramente da dire e che avessero dietro passione, urgenza, freschezza.

Passione, urgenza, freschezza. Tutte cose che La pazza gioia, l’ultimo film di Paolo Virzì, non ha. E infatti non è in questa lista. Perché questo ultimo film di Paolo Virzì non è nient’altro che l’ultimo film di Paolo Virzì.

Ci sono due donne che si ritrovano in un manicomio sperduto nelle colline toscane. Una, quella borghese — e naturalmente trascinatrice — si chiama Beatrice Morandini Valdirana, parla per due terzi del film con la voce stridula e l’espressione da doppio cognome di Valeria Bruni Tedeschi. Conosce tutti, si sa spacciare per una dottoressa, è una bella donna nonostante la mezza età e, come tutti i ricchi, spende ogni singolo euro che trova sul suo cammino.

L’altra, quella debole, per contrasto necessariamente proletaria e ignorante, si chiama Donatella Morelli, ha il viso e il corpo “schieletrico” di Micaela Ramazzotti (moglie di Virzì, evviva la famiglia tradizionale), parla poco, è piena di tatuaggi e sembra un po’ scema. Ha un cellulare degli anni Novanta, dice di suo padre che scrisse delle canzoni per Gino Paoli, vuole ritrovare il figlio sottrattole dopo un tentato omicidio-suicidio e dato in affidamento e, nonostante non sia in grado di badare a se stessa ha, come tutti i poveri, un forte senso della parsimonia.

Opposte per tutto, l’unica cosa che le due hanno in comune è il fatto che entrambe sono pazze, o dichiarate tali. La prima perché si è mangiata tutto il patrimonio di famiglia per stare dietro a un tossico burino ormai relegato agli arresti domiciliari (l’attrazione fatale della nobildonna per il proletario); la seconda per quella storiella di omicidio-suicidio (il legame fatale tra miseria morale e miseria economica), quando si è lanciata da un ponte insieme al figlioletto dopo che il padre del piccolo, il suo ex capo quando faceva la cubista in discoteca, non li ha cagati di striscio.

Quando la classica psicologa fiduciosa nell’Umanità, dopo aver vinto il duello con il classico collega sfiduciato nell’Umanità, concede alle due di andare a fare un lavoro fuori dalla struttura e manuale, ché nobilita sempre, le due ovviamente scappano e ne succedono di tutti i colori. Ovvero, succede esattamente quello che potete immaginare: fughe rocambolesche, incontri improbabili, equivoci a ripetizione, incontri persi per pochi istanti e via dicendo.

“Un film avventuroso”, l’ha definito il regista, che ha poi aggiunto la sua necessità di esplorare “il confine labile tra sanità e insanità mentale, immergendoci nel cuore di esistenze condannate allo stigma sociale della follia e della pericolosità, e provando ad osservare – attraverso quel loro sguardo ritenuto strano, di donne imperfette – la fragilità, la miseria e a volte anche la ferocia delle nostre esistenze ritenute normali”.

Da vicino nessuno è normale, insomma. I matti vanno contenti, tra il campo e la ferrovia o a guinzaglio della pazzia. I matti non hanno più niente, vanno contenti, sull’orlo della normalità. Come stelle cadenti.

Ok, bene. Sono bellissimi messaggi. Messaggi sacrosanti, verissimi, così veri che sono ormai più che ovvi. Ma per goderne è sufficiente avere amici che in quelle realtà ci lavorano sul serio — e ci bestemmiano, perché in questo paese i pazzi saranno anche contenti, ma non interessano a nessuno — e vedere i loro, di filmati, quelli che di tanto in tanto postano su Facebook e che, quelli sì, qualche lacrima la strappano, lasciandoti quel sentimento di leggero senso di colpa che lascia l’aver spiato delle emozioni dal buco della serratura.

In questo caso no, perché questo ultimo film di Paolo Virzì è soltanto un altro film di Paolo Virzì. Non ci sono serrature. Non ci sono sensi di colpa. È tranquillizzante, come il futuro che si può immaginare un cinquantenne professionista realizzato, che forse proprio per questo non ha più niente da dire.

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