La casta non muore mai: anche per fare una pizza margherita ci vuole l’albo professionale

Proposta di legge forzista al vaglio della commissione Industria del Senato. Corsi di formazione, diplomi e aggiornamenti per 100 mila pizzaioli e un giro d'affari per le associazioni di categria

Ma dove vai se l’ordine non ce l’hai? Mentre a livello internazionale si discute di Ttip, Tisa, Ceta per facilitare gli scambi commerciali globali, in Italia si assesta un colpo al neoliberismo. In nome del made in Italy. La proposta di istituire l’albo dei pizzaioli è contenuta in un progetto di legge a firma dei forzisti Bartolomeo Amidei e Paola Pelino. Per accedervi sono necessari 18 mesi di esperienza e il superamento di un test teorico-pratico di fronte a una commissione di esperti scelti fra i membri delle associazioni riconosciute dal Mise e dal Comitato nazionale pizzaioli. Iscritti d’ufficio i “maestri” della pizza che esercitano la professione da almeno 10 anni o dirigono brigate con almeno quattro aiuto-pizzaioli.

La proposta di legge, al vaglio della commissione Industria di Palazzo Madama, punta a creare una “casta” a base di pomodoro e mozzarella. In attesa della decisione dell’Unesco sull’ammissione dell’arte della pizza fra i beni dell’umanità da tutelare, il nuovo App (Albo dei pizzaioli professionisti) rappreseterebbe un certificato di qualità. Per mantenerlo, un aggiornamento obbligatorio ogni cinque anni e almeno 120 ore di formazione con pratica in laboratorio, insegnamento delle lingue straniere, corsi sull’igiene e l’alimentazione. Copertura finanziaria richiesta per dar vita all’albo: 5 milioni di euro.

Il nuovo albo professionale riguarderebbe 100 mila pizzaioli (150 mila persone in tutto se si considerano gli aiutanti) e un settore che rappresenta il 50% del fatturato totale della ristorazione, con una media di quattro milioni di pizze cotte al giono in tutta Italia. Numeri enormi che vanno oltre l’immagine folkloristica di chi, pala in mano e mani sporche di farina, offre uno dei piatti italiani più riconosciuti al mondo

Una proposta che, secondo Amidei e Pelino, riguarderebbe 100 mila pizzaioli (150 mila persone in tutto se si considerano gli aiutanti) e un settore che rappresenta il 50% del fatturato totale della ristorazione, con una media di quattro milioni di pizze cotte al giono in tutta Italia. Numeri enormi che vanno oltre l’immagine folkloristica di chi, pala in mano e mani sporche di farina, offre uno dei piatti italiani più riconosciuti al mondo e che allo stesso tempo potrebbero rilanciare le richieste “corporativistiche” di altre categorie. Perché non istituire anche l’ordine dei produttori di vino, dei macellai, dei panettieri, degli ortolani e così via? Anche questo è tutto made in Italy, no? D’altronde, di corsi e attestati di qualità già ne esistevano. Dal 1984, per esempio, l’Associazione verace pizza napoletana (Avpn) tutela e promuove in tutto il mondo la pizza realizzata secondo l’antica tradizione partenopea e seguendo la ricetta e le caratteristiche approvate anchee dall’Unione europea nel 2010

Certo, dall’altra parte del bancone, i pizzaioli esultano. E non solo per la nuova qualifica professionale. A fare gola sono i corsi di formazione gestiti dalle associazioni che tutelano il prodotto. A loro spetterebbe gestire il giro d’affari generato da chi vuole entrare a far parte dell’albo, di chi è già dentro (e che pagherebbero un contributo annuale come già avviene per altri ordini professionali) e la concessione dei diplomi. Alla faccia del made in Italy e della concorrenza, per mangiarsi una Quattrostagioni meglio farsi la bocca al gusto di burocrazia. Anche se avevamo chiesto solo dell’origano.

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