Pubblichiamo un estratto del libro Per strade maestre di Stefano Regondi, un viaggio lungo lo Stivale per conversare con i grandi della cultura italiana e addentrarsi nelle loro vite e nei segreti del loro mestiere. Come nasce la vocazione di uno scrittore, di un architetto, di un musicista, di uno scultore, di un attore? Quali lampi di genio attraversano la biografia di donne e uomini simili? Quale posto merita la cultura umanistica in una società che vive la terza rivoluzione industriale? Ecco alcuni degli interrogativi che trovano risposta in quest’affascinante esplorazione della creatività. Tra gli intervistati, Erri De Luca, Antonia Arslan, Carla Sozzani, Giacomo Poretti, Francesco Guccini. E, in questo estratto, Claudio Magris.
La bora non soffia su Trieste, l’amletica città portuale incuneata al capo di una sottile lingua di terra tra l’Adriatico e il confine italiano con la Slovenia. Al pari di ogni frontiera la commistione di lingue e culture qui è una presenza quotidiana ed è semplice capire come grandi scrittori della statura di Italo Svevo, Umberto Saba, Ranier Maria Rilke, Scipio Slataper, James Joyce vi abbiano attinto l’ispirazione letteraria. Claudio Magris è seduto al tavolino del Caffè San Marco cui ha dedicato il primo capitolo del libro Microcosmi vincitore del Premio Strega. L’arredamento del Caffè è rimasto immutato dall’inaugurazione del 1914, al medesimo tavolino ha concepito e scritto a mano alcuni tra i suoi più celebri libri, qui riceve la posta e lavora.
«Mi concentro più che a casa dove i libri affastellati sono più interessanti di quelli che potrei scrivere io, poi questo tavolo è come una zattera in cui ho lo stretto necessario per scrivere, stando in mezzo al brusìo della gente; in più è un formidabile antidoto al delirio di onnipotenza che ti accompagna quando scrivi e credi di mettere a posto il mondo: alzi la testa e vedi gente che se ne frega e allora ti passa la grandeur».
«Fin da ragazzino ho amato scrivere, ho cominciato copiando e leggendo i libri di Emilio Salgari e le Enciclopedie paterne. Esaminavo le voci di trichechi, di orsi bianchi, le riportavo meticolosamente e aggiungevo particolari». Il professore allontana e avvicina ritmicamente la ciotola di olive».
«A 7 anni ho persino trascritto i trattati stipulati tra Francia e Spagna – pensi l’insensatezza – perché si citavano tra le righe del Corsaro nero di Salgari». «Ritagliavo brani dall’Enciclopedia e li collazionavo nel mio quaderno, mio padre si ritrovò intere opere rintuzzate e monche, tuttavia vedeva che il libro era ben fatto e ne aveva piacere nonostante stessi di struggendo la libreria. Il suo atteggiamento marcò un segno indelebile nel mio rapporto con i maestri: compresi il senso di autorevolezza e libertà, al punto che quando ebbi occasione di conoscere altri maestri non fui intimidito e mi misi in dialogo con loro». Al Liceo Classico incontra una comunità di amici, compagni e compagne di studio, dove impara ad amare e rispettare le cose di cui contemporaneamente ride: «Capitava con i professori e con lo studio più in generale, credo che questo sia fondamentale perché sviluppa un rispetto non passivo, non succube». Insieme all’amico Gabrieli all’esame di maturità si porta un ritratto che colloca in modo furtivo sotto il banco: «Io di Garibaldi, lui di Mazzini. Durante il compito fingevamo di copiare, mentre guardavamo i rispettivi ritratti, finché il presidente di commissione si avvicinò per smascherare l’inganno e ironicamente comunicammo che traevamo conforto da questi personaggi». Il commissionario cambiò poi la sua vita portandolo all’Università di Torino.
La Torino universitaria di Magris è al centro delle tensioni: «Arrivavano i mattoidi, la popolazione in città raddoppiava per l’immigrazione meridionale e l’ateneo era epicentro di contestazioni». Il professor Getto gli insegna tecnicamente il mestiere, di lì in poi si orienta verso la letteratura tedesca, approdando per alcuni periodi di studio a Freiburg. Poi un anno come assistente universitario a Trieste, al termine del quale diventa professore a Torino. «L’alternanza fra Torino e Trieste è il cuore della mia biografia. Trieste ti faceva respirare una libertà gipsy, zingaresca; mentre Torino era frontiera d’immigrazione».
In termini di formazione reputa maestri Getto, Vincenti, Marin, Mittner, Baioni, Bevilacqua, ma anche il “Corriere della Sera”: «Sono il più anziano collaboratore della testata perché scrivo da 48 anni. È stata una scuola importante, in specie quando il mondo mi ha rovesciato addosso temi che nel correggere le tesi, non contemplavo e su cui ho scritto i giudizi che sento più miei». Poi i maestri indiretti, come Bobbio da cui ha appreso la capacità di sceverare i valori caldi (amore e amicizia) da quelli freddi (legge e democrazia), imparando ad amare anche quest’ultimi. «Vado sempre a votare, nonostante sia contro la mia natura che sarebbe quella di andare al mare; tuttavia sono consapevole che perché più gente possa andare al mare bisogna andare a votare. Si tratta a mio parere di una virtù che va smarrendosi e che manifesta l’incapacità di quella logica che è la premessa alla morale».
Claudio Magris prosegue con voce cristallina, mentre in sottofondo le note blues del Caffè San Marco scandiscono le ordinazioni: «Il vero rapporto tra maestro e allievo è quello che ho raccontato nel capitolo “Maestri e scolari” di Utopia e Disincanto: Isaac Deutscher, rivoluzionario e biografo di Trockij e di Stalin racconta una storia che aveva letto da ragazzo in un Midrash dove si parlava di Rabbi Meir, caposcuola dell’ortodossia ebraica, allievo dell’eretico Elisha Ben Abiyu. Un sabato i due discutevano accanitamente di questioni religiose, presi dalla conversazione erano giunti al limite del cammino che, di Sabato, un pio ebreo non può oltrepassare. Rabbi Meir, distratto, stava per scavalcarlo, quando il suo maestro eretico lo fermò dicendogli che era il suo confine e non doveva superarlo. Questa storia è uno dei più intensi apologhi del rapporto fra maestro e allievo». Le parole pronunciate le riferisce anche al rapporto con i propri allievi che tuttoggi vede e che sono diventati docenti universitari in diversi atenei italiani o professori liceali».
«Il mio insegnamento, nel bene e nel male, credo non sia consistito tanto in un metodo, quanto piuttosto nella medesima capacità che ha uno di saper aprire una finestra nel punto in cui si può veder meglio il golfo di Trieste, nell’aver fatto capire come e che cosa vuol dire affacciarsi su un paesaggio o su un libro». «Poi, certamente, sono stato anche pignolissimo nel correggere le tesi, ma si tratta di un momento necessario di scrupolo e precisione che viene dopo, quando bisogna procedere con un’arida verifica del possesso delle nozioni necessarie».
«Con i miei studenti ho sempre mirato a questo. A mostrare loro le rotte su cui indirizzare la propria e personale navigazione. Un giorno uno studente mi spiegò che non veniva a un seminario che pure gli interessava perché non dava crediti, gli ho chiesto: “Hai mai baciato gratis una ragazza?”. Il senso dello studiare sta qui».
La stesura del Mito asburgico, pubblicazione accademica, è stata basilare per il suo percorso, tuttavia la prima opera narrativa è Illazioni su una sciabola del 1984, scaturita da un’esperienza di frontiera perduta e ritrovata risalente al 1944/1945 quando si trova a Udine con la madre perché il padre giace malato all’ospedale. La città è occupata da tedeschi e cosacchi di Krasnov, i tedeschi hanno promesso loro la collocazione dello Stato cosacco situato nel progetto originale dentro l’URSS, ciononostante tedeschi e loro alleati si ritirano e la patria promessa viene spostata sempre più a ovest finché per qualche mese è in Friuli, in Carnia. «La leggittima aspirazione ad avere una patria veniva pervertita, mediante l’alleanza nazista, nel contrario: nel venire a rubare la patria di altri. I cosacchi si arresero agli inglesi con la promessa che non li avrebbero consegnati ai sovietici, gli inglesi non mantennero la parola e così i cosacchi morirono gettandosi con le famiglie nel fiume Drava». Di questa vicenda Magris rimane esterrefatto dal modo con cui si è voluto far credere che Krasnov fosse morto durante la fuga travestito da soldato semplice: «Mentre sappiamo che fu consegnato ai sovietici e impiccato nel 1947 a Mosca». «Anche quando la verità storica è stata ristabilita si è voluta anteporre la verità poetica. Avrei voluto regalare questa storia a Jorge Luis Borges, perché in linea con la sua poetica, ma quando gliela raccontai un giorno a Venezia mi fece una carezza sul braccio e mi disse: “No, questa è la storia della sua vita, la deve scrivere lei”. Di lì in poi ho cominciato a scrivere seriamente ed è arrivato Danubio nel 1986».
«Un libro nasce con qualcosa di molto incerto; io e mia moglie Marisa eravamo in gita e discorrevamo lungo il Danubio, Marisa dice: “Se andassimo avanti a bighellonare”». Danubio è nato così, avanzando e indietreggiando in territorio sconosciuto sino a che poco alla volta i pensieri si sono con-
densati in idee. «La prima stesura è di getto ed è selvaggia, impugno la penna e scrivo. Non lo faccio per civetteria, ma perché con il computer non ho dimestichezza e la musica della frase ce l’ho nella mano. Nella prima fase non ho preoccupazione e lascio scorrere il fiume, se trovo dei sentieri interrotti, frasi che non girano, torno indietro e ricomincio. Poi lascio stare. Mollo il colpo. Quando ritorno sono meticoloso e viene il momento del pignolissimo controllo in cui ho la stessa meticolosità di un banchiere che verifica le cedole. Devo verificare che il nome del fiore sia corretto, che il civico corrisponda ancora a quell’abitazione». «Mia moglie Marisa leggeva sempre e aveva la grande arte di eliminare le once di grasso del mio periodare», ricorda con affetto. Per la scrittura che nasce da ragioni politiche o giornalistiche la storia cambia e avendo una calligrafia pessima gli tocca dettare quanto scritto: «Un giorno al Corriere mancava l’unico dipendente preposto a questa attività e ho dovuto dettare l’articolo al direttore in persona».
Quando insegnava in Università il periodo d’oro della giornata dedicata alla scrittura era il pomeriggio, tra le 15 e le 20, seduto al Caffè. Oggi gli è più difficile ritagliarsi tanto tempo impegnato com’è su diversi fronti: «Ricevo ogni giorno 4-5 dattiloscritti e devo rispondere a tutti per cortesia, ma non posso leggerli. Potrebbe capitarmi sotto mano Tolstoj ma non avrei il tempo di guardarlo. Quando mi metto a scrivere non ho la smania di dover pubblicare, pensi che l’ultimo romanzo Non luogo a procedere è uscito a dieci anni dal precedente».
Per essere tale uno scrittore deve saper cogliere un che di attuale. «Lo scrittore vuole condividere, Mario Vargas Llosa ha appuntato una frase molto bella: “Lo scrittore spesso sente che la vita è un’infermità incurabile, però poi come uomo deve cercare di curarla”». Trieste è una città crocevia impreziosita nel proprio tessuto da migrazioni e mescolanze di sangue, domando la sua lettura dinanzi ai fenomeni di profughi e migranti economici dal Medio Oriente e dall’Africa in Europa avendoli commentati diffusamente dalle colonne del “Corriere della Sera”: «Todorov ha scritto una pagina bellissima affermando che bisogna ottenere il massimo di relativismo in quanto apertura alla ricerca della verità, pur stabilendo una frontiera invalicabile di alcuni valori. Molto belle sono anche le pagine di Tito Perlini del libro Attraverso il nichilismo, pubblicato postumo; lui distingue il relativismo come necessaria correzione nella ricerca della verità da quello che è il più abbietto totalitarismo aberrante. Anche per questo tema tornerei a parlare di mancanza di logica che può condurre ad amnesie della ragione, al momento non vedo e non leggo soluzioni, certo è che rimane un dato di fatto: i nostri ospedali possono ospitare centinaia di pazienti non decine di migliaia».
«La contrapposizione di identità genera cortocircuiti e incandescenze di ogni sorta, in città il rapporto con il mondo degli Sloveni è risultato inizialmente difficile, alla stregua di una maledizione, anche per via dei torti commessi dai fascisti nei loro confronti. Molti dei miei allievi sono Sloveni e ho visto in loro e nelle loro famiglie che cosa produce un eccesso di costrizione».
Magris è convinto che l’identità sia un dato in perenne movimento, così come è capitato ai tempi dei patrioti italiani: «Slataper scriveva alla moglie: “Sai che sono slavo, tedesco, italiano”. Anche perché nella nostra identità nazionale si mescolano già identità linguistiche, culturali». La frontiera, tuttavia, è stata più di sovente barriera, crocicchio di incomprensioni e violenze.
«Un paio di righe di uno scrittore nero di Parigi illuminano il mio pensiero in proposito, la prima dice che: “Le radici non devono sprofondare nel buio ata-
vico delle origini ma devono allargarsi in superficie come i rami di un albero per entrare in contatto con altri rami, mantenendo la propria origine e aprendosi ad una relazione”; la seconda afferma che: “Il discendente di schiavi che pretende le scuse del discendente degli schiavisti si fa piccolo; entrambi devono conoscere le proprie origini”. Credo che al mondo serva questo tipo di signorilità, non bisogna continuare a essere minori».
Prende un’altra oliva e medita su quanto detto, poi riconquista il punto: «Papa Giovanni Paolo II fu criticato a lungo e bollato di pacifismo per la sua posizione contro l’intervento in Iraq, oggi la storia dimostra la sua genialità e la lungimiranza delle sue parole». Claudio Magris ha avuto modo di incontrare e dialogare personalmente con un altro pontefice, Papa Benedetto XVI. Per il secondo libro firmato da Joseph Ratzinger è stato invitato a presenziare come relatore in sala stampa vaticana insieme al Cardinale Ouellet; a conferenza terminata il responsabile della comunicazione padre Lombardi gli riferisce che c’è la possibilità durante il mattino seguente di incontrare il Pontefice: «Abbiamo parlato della Germania e del libro, durante il dialogo ha avuto un momento di ingenuità e improvvisamente ha esclamato: “Ma allora lei hai letto davvero il mio libro?”. Mi ha sorpreso la sua gioia fanciullesca e vedere come un libro scritto con ardimento e desiderio su ciò che sta a cuore si ponga l’unico obiettivo di condividere. Ho capito nuovamente che scrivere è condividere». Scrivere di storia è un’impresa ardua: «È difficile, ma possibile; nonostante siano continuamente messi in discussione tutti gli accadimenti; continuando a scrivere storie ci si approssima alla verità, solo una prospettiva divina conosce tutto».
Nel primo capitolo di Microcosmi Claudio Magris scava ancor di più in questa direzione: «Scrivere significa sapere di non essere nella Terra Promessa e di non potervi arrivare, ma di continuare tenacemente il cammino nella sua direzione attraverso il deserto».