Il Regno Unito, diviso. Juliet Samuel sul Telegraph invoca una leadership decisa per il dopo Brexit: Cameron è ormai entrato nella storia (e non nel modo in cui sperava, suggerisce James Hanning su Politico.eu) e i tory sono divisi; Nick Cohen sul Guardian attacca quei “giornalisti/politici”, come Boris Johnson e Michael Gove, bravi a catturare l’attenzione dei media con proclami roboanti, salvo poi tornare sui propri passi se messi alle strette. Tumulto anche nel Labour, dove esplode il malcontento verso il leader Jeremy Corbyn. Sul Guardian, Polly Toynbee indica la fiacca difesa del Remain da parte di Corbyn come ragione sufficiente per un avvicendamento; Zoe Williams, chiede un leader convintamente pro-Ue perché il Labour possa capitalizzare la reazione al Brexit. Paul Mason e Dawn Foster prendono le difese di Corbyn in nome dell’unità del partito contro i tories. Ma non si tratta solo dei partiti politici, è lo stesso Regno Unito a essere diviso. Adam Ramsey (Opendemocracy) immagina per la Scozia, che ha votato in maggioranza per restare nell’Ue, un futuro da “Groenlandia al contrario”. David Gow su Social Europe aggiunge che, alla luce dei risultati di Brexit, se se rivotasse per l’indipendenza della Scozia voterebbe a favore.
Divisioni europee. Anche i leader europei sono divisi, scrivono Jon Henley and Jennifer Rankin sul Guardian. Se da più parti in Europa si invoca l’attivazione dell’articolo 50 e l’avvio immediato delle negoziazioni, Angela Merkel richiama alla cautela rispetto ad eventuali atteggiamenti punitivi. Su Handelsblatt, Jan Hildebrand parla del “piano segreto” di Wolfgang Schäuble per il post Brexit: la Germania sarebbe pronta a negoziare un accordo di associazione con la Gran Bretagna, senza esagerare con le concessioni per non creare un precedente per altri stati membri. Anche in Germania non mancano le divisioni: secondo il Der Spiegel, per superare la crisi, l’SPD vorrebbe un piano per una “Schengen economica”. Per l’Economist, il vero conflitto è tra sicurezza economica –per cui sarebbe opportuno salvaguardare gli scambi con l’UK a costo di concessioni– e una questione politica di principio, .
Diagnosi e prognosi della Brexit. Per Mike Carter sul Guardian, il voto sulla Brexit non è una sorpresa. La devastazione delle periferie industriali da Liverpool a Londra testimoniere che il Regno Unito non si è ripreso dalle riforme della Thatcher. Secondo Sara Hobolt (Europp) i dati mostrano che sono i cosiddetti ‘sconfitti’ della globalizzazione (classi lavoratrici con bassi livelli di istruzione) ad aver votato compatti per il Leave. Su Social Europe, Martin Seeleib-Kaiser sostiene che al cuore del referendum ci sia la questione di come lo UK stia reagendo alla deindustrializzazione, alla povertà crescente e a livelli di disuguaglianza tra i più alti d’Europa. Dopo decenni di integrazione dei mercati, solo l’attuazione di una vera Europa Sociale può invertire la marea: Jean Lambert (Euractiv) sostiene che Brexit sia l’ultimo appello di “riforme o morte” per l’UE, in particolare verso più democrazia e più trasparenza. Per Stefan Kuzmany (Der Spiegel) la Brexit è un avvertimento a non dare l’UE per scontata: l’integrazione di tanti stati – e tanto diversi – è la sola garanzia di una pace duratura, alla quale siamo ormai pigramente abituati. Per Tim King (Politico.eu) il referendum non prova nulla di nuovo se non quanto sia difficile radunare consenso attorno all’UE. Jan Zielonka (OxPol) osserva che scarseggiano le idee su come ristrutturare l’UE, e ciò non fa che allargare il divario tra gli euroscettici e i sostenitori dello status quo, e propone possibili soluzioni per superare l’impasse: dal superamento del monopolio statale nelle decisioni di integrazione, all’abbandono di una struttura centralizzata in favore di una policentrica, fino al passaggio a un’integrazione funzionale e non solo territoriale. Secondo Christoph Schult (Der Spiegel) sarà il Regno Unito a subire le conseguenze negative di Brexit mentre per il resto d’Europa si aprono finestre di opportunità: “più Europa” non è necessariamente la soluzione a tutti i problemi, ma laddove una maggiore integrazione è necessaria l’assenza del Regno Unito potrebbe facilitare le cose. Per quanto riguarda il Regno Unito la prognosi per il post Brexit è legata alla direzione politica: per Paul Mason (the Guardian) il Labour deve accettare quanto prima il risultato del referendum come un dato di fatto e declinarne gli sviluppi in chiave progressista, per affrontare le questioni di giustizia sociale che inevitabilmente saranno al centro delle negoziazioni future. Per Douglas Hansen-Luke (Conservativehome) il Regno Unito deve puntare a mercati aperti con il resto del mondo, così come oggi nei confronti dell’UE, ma limitare l’accesso al welfare da parte degli immigrati. Sebastian Koehler, su Europp, invita ad attivare quanto prima la procedura dell’Articolo 50, dal momento che prolungare all’infinito l’incertezza non fa che danneggiare l’economia.
Il Popolo e le élites. Per Sorin Moisa (Euractiv) alla fine non ci sarà nessuna Brexit. Le bugie e gli appelli alla pancia della campagna Leave si scontreranno presto con la realtà: l’immigrazione continuerà come prima, l’NHS (il Sistema Sanitario Nazionale inglese, NdT) non riceverà più fondi, la Scozia cercherà presto l’indipendenza e l’economia subirà un duro colpo; per invertire la rotta ci vorrebbe un nuovo referendum. Geoffrey Robertson (the Guardian) invece sostiene che lo strumento referendario non appartenga alla tradizione britannica e non sia adatto a dirimere questioni complesse: se non verranno recepite in una costituzione scritta, le aspettative create dal risultato di giovedì potrebbero incrinare i meccanismi democratici. Anche Patrice De Beer (Opendemocracy) riconosce che nei referendum si finisce spesso per votare a favore o contro i leader politici, più che sulle questioni specifiche. James Crisp su Euractiv riconosce che il voto su Brexit è stato una follia, ma aggiunge che l’UE può guadagnare legittimità solo attraverso ‘test’ democratici. Secondo Michael Skey (Opendemocracy) bisogna invece smetterla di guardare dall’alto in basso gli elettori inglesi, che sapevano benissimo quello che facevano, scegliendo di punire élites politiche distanti e incuranti dei loro problemi. Su Social Europe, Manuel Muniz si chiede come mai gli elettori inglesi si siano espressi in maggioranza per Brexit contro i consigli di praticamente tutti gli analisti e gli esperti. Questa forma di populismo può essere vista come un fenomeno globale generato dalla rapidità dello sviluppo tecnologico e dal suo impatto sul mercato del lavoro e sulla distribuzione della ricchezza. Per finire, David Held (Social Europe) ritiene che l’UE soffra di uno scollamento tra le sue prerogative politiche e le sfide economiche e sociali che ha di fronte: se l’integrazione economica è aumentata, la cornice istituzionale in grado di gestirla non si è ancora consolidata.
Leggi anche:
The Brits Have Chosen Out and Must Face the Consequences – Der Spiegel
12 people who brought about Brexit – Politico.eu
Britain Leaves on a Cry of Anger and Frustration – The New York Times
Britain heads forwards into the past – Euractiv