Dopo i festeggiamenti del Movimento 5 Stelle, il sospiro di sollievo del Pd e il rinnovo della giunta arancione di De Magistris tocca alla celebrazione silenziosa degli astenuti. Un partito che a questi ballottaggi amministrativi sarebbe maggioranza assoluta. A Torino, Milano, Roma e Napoli, le prime quattro città italiane in termini di popolazione, il totale di chi non si è recato alle urne tocca quota 2.485.613 aventi diritto. Tanti quanti gli abitanti totali delle altre sei città (da Palermo a Bologna, Firenze e così via fino a Catania) più popolose della Penisola. Sulle cause di un comportamento che dagli anni ’80 in poi è andato accentuandosi considerevolmente. Nelle elezioni amministrative del 19 giugno si è arrivati al 50,5%: -14% rispetto alle comunali del 2015 e -20% rispetto a quelle del 2014. Una falla che ha bisogno di una toppa, perché il vero rischio è il contagio: «Tanto per l’astensione quanto per il voto, quel che vale è il conformismo», afferma Paolo Segatti docente di Scienze Politiche alla Statale di Milano.
Torino, Milano, Roma e Napoli, le prime quattro città italiane in termini di popolazione, il totale di chi non si è recato alle urne tocca quota 2.485.613 aventi diritto. Tanti quanti gli abitanti totali delle altre sei città (da Palermo a Bologna, Firenze e così via fino a Catania) più popolose della Penisola
La toppa, in questo caso, potrebbe essere la re-introduzione del voto obbligatorio che in Italia è scomparso con la riforma elettorale del 1993. In origine, la Costituente aveva considerato il voto come un “dovere civico” con tanto di sanzioni in caso di astensione, come l’istituzione dei certificati di buona condotta dell’elettorato o le liste pubbliche. In ogni caso, una “pena” simbolica e scarsamente applicata. «Poi la cultura civica e politica è cambiata – continua Segatti – E adesso sarebbe impossibile reintrodurre l’obbligo di voto. Piuttosto si cerca di far leva su altri sistemi di partecipazione legati soprattutto alla capacità attrattiva dei partiti verso la popolazione». Visti i risultati delle ultime elezioni sembra ancora lunga prima di arrivare ai livelli dell’Australia. Grazie a una norma introdotta nel 1924, si sfiorano percentuali bulgare. Alle federali del 2013, i votanti sono stati il 93,2% della popolazione elettorale. Merito forse delle sanzioni da 26 a 170 dollari australiani per chi non si presenta alle urne? Non proprio, data la possibilità di mostrare una giustificazione congrua per evitarle. Si tratta piuttosto di una consuetudine che va peraltro smarrendosi. Per votare, ci si deve iscrive a delle liste elettorali ma proprio nel 2013 circa 1,3 milioni di persone non l’hanno fatto. Soprattutto giovani e nonostante sia altrettanto obbligatorio (anche se non è prevista alcuna punizione per chi decide di iscriversi dopo i 18 anni).
«Nel nostro Paese due giuristi e parlamentari, Luzzatto e Saredo, nel 1901 furono al centro del dibattito sul tema dell’obbligatorietà del voto – racconta Giovanni Cordini, autore di Il voto obbligatorio (1988) e professore di diritto pubblico comparato all’Università di Pavia – Prima del fascismo ci furono delle proposte articolate, con tanto di sanzioni previste. Ma non se ne fece niente». Anche per il freno posto dalla Chiesa attraverso il Non Expedit. La bolla di Pio IX, in vigore fino al 1919, dichiarava inaccettabile la partecipazione dei cattolici alla politica attiva italiana. «Oggi, in verità, basterebbe una legge ordinaria per tornare alla situazione precedente. Ma a mio avviso si tratterebbe di una forzatura delle intenzioni dei costituenti – coclude Cordini – Loro avevano in mente un’obbligatorietà che facesse leva sul dovere di un cittadino a partecipare alla vita pubblica dopo un ventennio in cui ciò non fu possibile». Insomma, una moral suasion che oggi parrebbe inefficace. Nel mondo sono comunque 26 i paesi che applicano il voto obbligatorio. Detto dell’Australia, in Europa si possono citare i casi di Lussemburgo, Belgio (dove è in vigore la più vecchia legge sul tema), Grecia e Cipro. Maggiore la diffusione in Sud America, anche se il reale tasso di applicazione delle sanzioni resta discutibile. Nel Pacifico, c’è poi Singapore dove l’obbligo scatta solo per i maggiori di 21 anni che sono riusciti a iscriversi in tempo alle liste elettorali che vengono annualmente aggiornate.
«Oggi basterebbe una legge ordinaria per tornare alla situazione precedente. Ma a mio avviso si tratterebbe di una forzatura delle intenzioni dei costituenti. Loro avevano in mente un’obbligatorietà che facesse leva sul dovere di un cittadino a partecipare alla vita pubblica dopo un ventennio in cui ciò non fu possibile»
I sostenitori dell’obbligo affermano che fra i vari benefici ci sarebbe anche una maggiore rappresentatività nelle varie istituzioni, campagne focalizzate sui contenuti, fine del rapporto fra costi (raggiungere l’urna, fare la coda, scegliere un candidato poco affine, ecc) e benefici del votare, minore ricattabilità dei gruppi d’interesse esterni e un’inclusione delle fasce più marginali di votanti. Dall’altra parte, le argomentazioni dei contrari puntano innanzitutto sull’interpretazione del voto come diritto e non come dovere. Il rischio è quello di portare alle urne elettori più costretti che volenterosi, quindi più annoiati da questa imposizione che informati sul proprio ruolo decisionale. In ogni caso, sia da una parte che dall’altra si è consapevoli che non c’è diretta correlazione fra affluenza e partecipazione attiva. Mentre sarebbe auspicabile che dalla seconda si creasse una spinta al seggio. E se anche questo non basta c’è sempre il modello nordcoreano: un candidato e percentuali che vanno oltre quota 90% e buona pace alla democrazia.