Un anno fa il caso del capotreno ferito gravemente alla testa con un machete nella stazione di Villapizzone, periferia di Milano. Il 3 luglio di quest’anno un altro caso di cronaca: rissa e coltelli fuori dalla discoteca Lime Light, in zona Bocconi. Forse vecchi conti da saldare fra bande rivali; forse una prova di forza. Di certo due feriti: un salvadoregno di 21 anni e un albanese di 18 ricoverato d’urgenza all’Humanitas di Rozzano. Gli inquirenti indagano e seguono la pista che conduce alle gang – uno dei fenomeni criminali (e non solo, come vedremo più avanti) più complessi e meno compresi in Italia.
Il capotreno ferito alla testa nella stazione di Villapizzone a Milano. La rissa fuori dal Lime Light. Chi sono e perché non sappiamo nulla delle gang di latinos?
A spulciare fra i report del Ministero della Giustizia e quello degli Interni regna il caos e sono gli stessi funzionari di polizia a raccontare quanto sia difficile inquadrare questi episodi e catalogarli negli archivi delle Questure. Non è micro criminalità ma non è nemmeno criminalità organizzata, per come siamo abituati concepire in Italia questo concetto. Come si può sapere se uno stupro è un evento isolato o una punizione nei confronti di un membro che ha sgarrato? Se una rissa è figlia dei fumi dell’alcol o dell’invasione del territorio da parte di una banda rivale? E ancora: quali territori sono in mano alle gang? Ci si aspetterebbe, al solito, le periferie degradate dove lo Stato è assente, le forze dell’ordine non mettono piede e i differenti gruppi etnici si insediano in maniera incontrollata. È così solo in parte. Ci si stupirebbe nel sapere che a Milano, per esempio, secondo alcune stime il più alto tasso di concentrazione di attività delle gang latine è in centro città, fra il Duomo e San Babila, e non al Corvetto, uno dei quartieri con la più alta densità di immigrazione latina, o nella sempreverde via Padova – inclusa quella con la nuova dicitura in inglese.
Centinaia di arresti nell’ultima decade in tutta Italia ma, nonostante ciò, una letteratura consolidata sul fenomeno non esiste. A partire da domande banali: come si riconosce un membro del Barrio18 o del Mara Salvatrucha? Come si entra e, nel caso, come si esce da una gang? Qual è il rapporto con la componente femminile e con l’esperienza del carcere? Le risposte sono meno banali dei quesiti e per darle serve l’aiuto di chi studia le gang da più di vent’anni. Come Donna De Cesare, fotografa documentarista, docente di giornalismo a Austin, University of Texas, che si è immersa nel mondo del Mara Salvatrucha e del Barrio18 (18th street). Da questa esperienza ha tratto il libro in doppia lingua inglese-spagnolo “Children in a World of Gangs”. Alcuni dei suoi scatti più significativi sono esposti alla Biennale di Venezia all’interno della mostra Gangcity – viaggio tra gang e periferie del mondo, un progetto organizzato dall’Università di Torino e Politecnico con la collaborazione di numerosi docenti italiani e stranieri, e che resterà in laguna fino al 27 novembre di quest’anno.
A colpire, oltre alle componenti iconografiche e simboliche, è la storia: «Bisogna conoscere la storia e i costumi locali della zona da cui provengono le gang per capire la potenza dei simboli», spiega a Linkiesta la docente dell’università texana, «per esempio alcune gang di origine centro americana adottano l’immagine della Vergine di Guadalupe. Non è soltanto una Madonna. Deriva da un culto degli indigeni Aztechi che, nel tempo, si è trasformato nella storia di un’apparizione nei sobborghi di quella che oggi sarebbe Mexico City. Nel sedicesimo secolo, all’epoca della conquista spagnola e la conversione forzata degli indigeni, dalla loro religione politeista al cattolicesimo della Chiesa romana. La Vergine di Guadalupe assume quindi il significato identità e di radici nel passato».
Oltre a storia e tradizione si fondono decine di elementi religiosi, urbani, musicali: bandane, rosari a perline che la stessa gang può avere di colore nero o bianco a seconda del luogo in cui si trova. Ovviamente i tatuaggi sul corpo: «Alcuni stanno lì a significare il tempo speso in prigione, altri delle sofferenze, dei traumi o delle perdite. In particolare la perdita di amici o familiari che sono stati ammazzati da gang rivali o dalla polizia. A ben vedere i loro corpi possono essere considerati come un monumento ai caduti o una lapide di una vita in guerra». E ancora: soprannomi e nomignoli, sia per la gang che per i suoi affiliati; scritte e graffiti stilizzati da “incidere” sui muri delle città, mentre le gang afro-americane negli Stati Uniti hanno addirittura dei passi di danza e dei movimenti riconoscibili.
Ma il folklore e l’iconografia non devono confondere le acque. Dietro c’è un’organizzazione, dei rituali e ruoli da rispettare. Come la figura carismatica del leader o “palabreros”, parola che in origine significa amministratore della giustizia e delle controversie. Ma la struttura delle gang è più «opportunistica che non gerarchica», come la definisce Donna De Cesare. Dipende cioè dai contesti: in carcere è in un certo senso dettata dalle esigenze della costrizione fisica e morale; per strada è di tutt’altro tipo. Una struttura liquida «che si adatta alle forme di “repressione” che le istituzioni adottano per controllare la violenza criminale». Per esempio molti studi si soffermano sui gravi errori commessi in Centro America durante il periodo della “Mano Dura”, una strategia di repressione “militare” fatta propria da Paesi come Guatemala, Honduras o El Salvador, dove per esempio alcuni membri delle gang sono stati giustiziati a sangue freddo senza alcun processo.
Una strategia disumana che non ha nemmeno portato a molti frutti in termini di pubblica sicurezza. E proprio perché si concentravano sulla foce e non sulla fonte del problema. Come ad esempio il fatto che gli la maggior parte degli affiliati entrino nelle gang fra i 14 e i 16 anni. È l’età in cui arde il fuoco della ribellione, a maggior ragione se sei un latino di Los Angeles, figlio di immigrati a basso reddito e che sconta un certo tipo di ostracismo e rigetto da parte della società. In quel caos la gang diventa anche sicurezza fisica ed economica. Senza per forza essere obbligati a delinquere, sopratutto fra coloro che non finiscono invischiati in dipendenza da stupefacenti (o che ne escono) e che trovano presto famiglia e lavoro.
Il vero problema degli ultimi anni è che questo meccanismo virtuoso di appartenenza senza delinquenza si sta rompendo, per via delle crescenti disuguaglianze un po’ dappertutto in Occidente e negli Usa. Donna De Cesare parla di «gang multi-generazionali» dove bambini di 7-8 anni si uniscono alla banda: alcuni sono dei senzatetto, altri figli di membri o ex membri che danno continuità alla filiera di sangue. Altri ancora sono semplici ragazzini di quartiere, i cui genitori si spaccano la schiena tutto il giorno a lavoro e la gang diventa quindi una forma di baby-sitter a tempo pieno. Il vantaggio per l’organizzazione è di tipo funzionale: i bambini insospettiscono di meno la polizia e in caso di arresto mentre fanno da corrieri per la droga godono di tutta una serie di benefici penali e sconti di pena dovuti alla tenera età.
Stesso discorso vale per le donne con ulteriori distinguo. Nei primi anni ’90 esistevano gang solo femminili e, in generale, ogni banda aveva delle componenti donne al suo interno. Negli ultimi anni i Mara Salvatrucha hanno vietato la presenza femminile nelle loro fila. Motivi operativi e motivi culturali. Nel primo caso perché le donne erano diventate i bersagli prediletti della violenza distruttiva sia fra i rivali che con le autorità. Ma non è stata presa questa decisione solo allo scopo di difendere e tutelare. C’è da considerare i livelli di disuguaglianza di genere che caratterizzano molte delle nazioni di provenienza delle gang nel Centro America. Disuguaglianze, violenza domestica e maschilismi vari che si riflettono anche nella vita collettiva delle gang. Di regola generale ce n’è solo una: per capire il comportamento delle gang bisogna studiare non solo gli aspetti superficiali legati alla criminalità, ma anche le componenti sociali e antropologiche, i legami della comunità con i Paesi le culture di provenienza. E come queste si siano mischiate nelle nazioni d’arrivo.