«È tardi per salvare la democrazia da governi e multinazionali»

Sander Venema di lavoro fa il programmatore, nel tempo libero l'attivista informatico, o meglio, l'hacker. Alla domanda su quali siano i pericoli che corre la democrazia nell'epoca della sorveglianza globale risponde senza pensarci due volte: «l'alleanza tra le multinazionali e potere governativo»

Sander Venema è un ragazzotto olandese dalla faccia simpatica. Un lungagnone che si aggira caracollando nel caldo di Riccione con il sorriso sempre stampato in faccia. Già a prima vista lo diresti subito che è un programmatore. Sembra un po’ timido. Ha gli occhiali leggermente storti e un’andatura ingenua, timida. Ma Sander Venema, che non ha nemmeno trent’anni, non è un soltanto un programmatore. È qualcosa di più, è un hacker, un attivista, un informatico che, nel tempo che riesce a ritagliarsi dal lavoro principale, cerca di cambiare il mondo, come dice lui, «un pezzettino dopo l’altro, una persona dopo l’altra».

L’ho incontrato in un stanzone scuro e fresco, al secondo piano del palazzo del turismo di Riccione. Ha appena finito una lunga e interessante chiacchierata sul mondo degli hacker condotta da Philp Di Salvo dell’Osservatorio Europeo di Giornalismo (EJO) nell’hacker room di DIG, il festival del giornalismo d’inchiesta di Riccione svoltosi tra il 23 e il 16 giugno scorsi, di cui Linkiesta era media partner. Ha parlato di Facebook, di sorveglianza globale, di telefoni che sono in realtà macchine perfette per sapere tutto di noi. Ha dimostrato di essere molto meno timido e impacciato di quanto sembrasse.

Ma è quando gli chiedi se ha voglia di fare un’intervista che capisci il fatto di essere un informatico hacker smanettone non gli impedisce di essere soltanto di essere spigliato, ma nemmeno di essere molto simpatico. E infatti alla domanda reagisce sorridendo, facendo di sì con la testa e, in un inglese la cui durezza tradisce la sua nazionalità olandese, fa cenno verso il banco del bar. È il suo modo di dire “Sì, accetto l’intervista”. Ma in cambio vuole una birra.

«Prima di diventare un attivista ho studiato graphic design», racconta bevendo il primo sorso di birra fresca che si trova davanti, «e per un po’ ho fatto il programmatore».

Poi, che è successo? C’è stato un momento preciso in cui hai deciso che volevi essere un attivista?
In quel periodo ho iniziato a frequentare programmatori, eventi hacker e ho incontrato gente che ragionava sulla tecnologia. Erano più grandi di me di qualche anno e avevano capito che i problemi non sono mai legati direttamente alla tecnologia.

E a che cosa sono legati?
Ai comportamenti che ci stanno dietro.

Cosa vuol dire?
Per esempio vuol dire che cambiando il comportamento si può cambiare l’uso e il ruolo della tecnologia nella società, ovvero che non è la tecnologia che cambia la società ma il contrario. La tecnologia è una esperienza sociale, e come tutte le esperienze sociali non si cambia in un giorno, ma un pezzettino alla volta. Una goccia dopo l’altra.

Cosa hai imparato da loro?
Venendo a contatto con questi ambienti ho avuto la possibilità di avvicinarmi a whistleblower, ad hacker, a programmatori esperti. Ho imparato le prime cose sulle questioni di sicurezza nazionale, su come funziona la sorveglianza e su come viene usata dal potere e dai servizi segreti.

Qual è secondo te il più grande problema che la democrazia deve affrontare all’epoca della sua riproducibilità digitale?
In questo periodo storico il pericolo più grande per le democrazie è il fatto che ormai le multinazionali sono più potenti dei governi e hanno un’influenza enorme. Ma se per il mondo politico abbiamo degli strumenti per controllare il potere — parlamenti, partiti, elezioni, organi di garanzia — tutto questo non esiste per le multinazionali. È su questo punto che molti di noi si stanno impegnando in questi anni.

Perché queste problematiche di sicurezza informatica dovrebbero interessare i cittadini normali? Se uno non ha niente da nascondere, perché dovrebbe aver paura?
È vero. Questa è una cosa che pensano in molti: «Non ho nulla da nascondere, quindi non ho nulla da temere». Non è corretto. Il problema principale di questa affermazione è che le leggi cambiano, e chi ha il potere di cambiarle sono i governi, e le multinazionali hanno un forte ascendente sui governi. Fai tu i conti. Vuol dire che probabilmente puoi dire senza timore di mentire che oggi non hai nulla da nascondere, ma non sai cosa potresti voler nascondere nel futuro.

In futuro? In che senso?
Il problema è che oggi potresti fare una cosa che è perfettamente legale senza avere paura e senza capire perché dovresti nasconderla; ma nel futuro quella cosa potrebbe essere illegale. Ti faccio un esempio un po’ forte, all’inizio del Novecento anche gli ebrei di tutta Europa pensavano di non aver nulla da nascondere.

Detta così fa molta paura…
Sì, e ora pensa a un’altra cosa: le informazioni personali in mano ai governi negli anni Trenta nel Novecento, confrontate a quelle che hanno ora fanno ridere. Quello che le agenzie possono sapere di noi oggi fa impressione. È una mole di dati allucinante, e può cambiarci la vita.

Perché?
Perché governi sono clienti di queste multinazionali, comprano servizi da loro. Questo è molto strano, ma anche molto pericoloso, perché i dati in loro possesso non sono soltanto tantissimi, ma sono anche perfettamente ricercabili e ritrovabili anche tra cinque, dieci o vent’anni.

Qual è il rischi più grosso che stiamo correndo?
L’acuirsi dell’alleanza tra governi e multinazionali, tra pubblico e privato. Perché l’unica cosa che manca alle multinazionali è la licenza all’uso della violenza. In uno stato moderno, quella ce l’ha solo lo Stato è un monopolio. Ma quando i due poteri si alleano questa cosa diventa molto pericolosa e lo si sta vedendo con il trattamento dei cosiddetti whistleblower. Perché quando è una multinazionali che ti attacca, quello che rischi di solito è perdere il lavoro, perdere la propria reputazione, perdere il proprio patrimonio. Ma è soltanto quando ad attaccare sono i governi che rischi di perdere la libertà, i tuoi diritti e rischi di dover passare anni, a volte decenni, in carcere.

Spiegami meglio la questione dell’alleanza tra pubblico e privato…
Questa combinazione tra il potere delle multinazionali e la violenza del governo è molto pericolosa. Se provi a guardare questa dinamica storicamente, trovi una cosa interessante.

Ovvero?
Sai qual è la definizione di fascismo data da Mussolini? La definizione di fascismo data da Mussolini è basata esattamente sull’alleanza tra il pubblico e il privato. Quando le multinazionali diventano così potenti da dettare legge agli stati, come succede in questo momento, allora forse dovremmo preoccuparci. Anche perché hanno una infinità di dati su di noi e sono al servizio degli stati: abbiamo tutte le ragioni per essere preoccupati. Forse è già troppo tardi.

Quali sono le cose che noi, poveri comuni mortali, possiamo fare per essere più tranquilli?
Prima di tutto sapere che quello che hai in tasca — anzi, questo che mi stai mettendo davanti alla bocca per registrare — è un computer a tutti gli effetti. Anzi, ogni tanto è anche qualcosa di più, perché contiene un microfono, una videocamera, un sensore di equilibrio, un gps e molte altre cose. Saperlo è già importante. Perché così puoi decidere di lasciarlo a casa quando fai qualcosa di importante. Altri consigli che posso dare, proprio basici, sono limitare la visione di advertising installando degli adblock sul tuo browser, così da limitare il tracciamento dei tuoi movimenti e delle tue abitudini e avere, nello stesso tempo, una navigazione più veloce. Oppure, un’altra cosa è cominciare a usare programmi come Signal invece che Whatsapp o Telegram.

Signal?
Sì, è una applicazione molto ben fatta e veramente criptata. Ha un unico problema.

Quale?
Fino a quando non raggiungerà una massa critica di utenti è poco utile al pubblico di massa. È come con Facebook, è la pressione sociale che mantiene il giardino chiuso: nessuno se ne va da Facebook perché su Facebook ci sono tutti. È il discorso che facevamo prima: il mondo si comincia a cambiare un pezzo per volta, ma non cambia fino a quando non raggiungi una massa critica che spezza una dinamica. È a quel punto che qualcosa di spezza e tutto cambia.

Un’ultima domanda: qual è la tua paura più grande?
La cosa più importante che ho capito nella mia vita è che non voglio vivere in uno stato di polizia. La mia paura più grande è che ci stiamo già vivendo, che sia troppo tardi per fare qualcosa, che ci abbiano già anestetizzato. Ho paura che la verità sia che stiamo camminando tutti verso l’abisso senza nemmeno accorgecene. Ti cito una poesia di Martin Niemöller che mi è sempre piaciuta molto, fa così: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

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