Nuovi businessFucili e radar, il doppio affare della lobby delle armi sulla pelle dei profughi

Vendere le armi ai paesi in guerra, vendere tecnologia per controllare le frontiere all’Europa impaurita. Finmeccanica e gli altri big della tecnologia militare guadagnano due volte sull’immigrazione. E influenzano le decisioni di Bruxelles sui migranti

C’è chi con la crisi dei rifugiati ci sta guadagnando. Perché se l’Unione europea investe nei controlli delle frontiere per bloccare i trafficanti e controllare i flussi, fornendo tecnologie all’avanguardia e armi agli agenti di Frontex, ci sono società che questi strumenti li vendono. Non a caso, in Europa il business della sicurezza dei confini negli ultimi anni è decollato: con un valore stimato di 15 miliardi di euro nel 2015, supererà i 29 milioni di euro entro il 2022. E come in un cortocircuito, le società che più stanno guadagnando nella sorveglianza delle frontiere sono le stesse che commerciano armi in Medio Oriente e Nord Africa, alimentando quei conflitti da cui gli stessi rifugiati fuggono.

È quello che viene fuori dal rapporto “Border Wars”, promosso dall’organizzazione non governativa olandese “Stop Wapenhandel” e pubblicato dal Transnational Institute. Tra i big dei sistemi militari che più stanno battendo cassa grazie al controllo delle frontiere, ci sono Finmeccanica, Thales, Safran e il gigante spagnolo della tecnologia Indra. Le prime tre sono anche tra le principali aziende esportatrici di armi dall’Europa.

Davanti al flusso crescente di rifugiati, la risposta della Commissione europea è stata quella di “combattere l’immigrazione illegale” e aumentare la sicurezza delle frontiere. A partire dalla fondazione di Eurosur, il sistema di sorveglianza che prevede la cooperazione tra i diversi Stati. Mentre Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, negli anni è diventata un avamposto sempre più potente, aiutando gli Stati membri nell’individuazione delle imbarcazioni dirette verso le coste europee. Il mare tra Grecia e Turchia è pattugliato dalle navi di Frontex 24 ore su 24, con equipaggi di diverse nazionalità che si danno il cambio su turni di otto ore su navi dotate delle più sofisticate tecnologie. La stessa cosa accade nel canale di Sicilia. Con l’apporto, per giunta, delle navi della Nato, arrivate nel Mediterraneo in soccorso dell’Europa (Finmeccanica tra l’altro fornirà le sue tecnologie anche al programma Nato “Alliance Ground Surveillance”). Nel frattempo, sulla rotta Est, l’Ue ha esternalizzato i confini tramite l’accordo con la Turchia, partito il 20 marzo scorso. E da Ankara hanno già fatto sapere che nei prossimi anni spenderanno centinaia di milioni di dollari per controllare il confine con la Siria.

Controllare i confini esterni è diventata l’ossessione dell’Europa impaurita. Ad aprile 2015, dopo due naufragi a largo della Libia, il Consiglio europeo ha dato il via all’operazione Eunavfor Med operation Sophia, con un budget di 11,82 milioni di euro, destinati alla lotta al traffico di immigrati nel Mediterraneo centrale. Davanti a operazioni di questo tipo, le società che forniscono armamenti, tecnologie e infrastrutture It si sfregano le mani. Il budget di Frontex, tra il 2005 e il 2016, è cresciuto del 3,7%, da 6,3 milioni e 238,7 milioni. Solo nell’ultimo anno è aumentato del 67 per cento. E le richieste da parte delle aziende di accaparrarsi i contratti di fornitura degli equipaggi sono aumentati nel corso degli anni. Tanto che Frontex ha stabilito due o tre appuntamenti fissi annuali, tra fiere e workshop, con le aziende del settore. A Roma, nel febbraio 2016 si è tenuta la nona edizione della Border Security Conference and Expo alla presenza di Fabrice Leggeri, direttore esecutivo di Frontex, e alcuni rappresentanti delle aziende della sicurezza.

D’altronde, Thales, Finmeccanica ed Airbus sono anche ai vertici della European Organisation for Security (Eos), facendo attività di lobbying nei palazzi di Bruxelles. Nel board si trovano Santiago Roura di Indra, Andrea Biraghi, capo della divisione dei sistemi per la sicurezza e le informazioni di Finmeccanica, e Mark Miller di Conceptivity. E l’amministratore delegato è Luigi Rebuffi di Thales. La Eos, non a caso, ha indicato il controllo delle frontiere come una delle principali aree di investimento per la sicurezza europea. Lo stesso progetto della nuova Guardia costiera europea, che da settembre 2016 trasformerà Frontex, si legge nel rapporto, è un’idea proposta da queste aziende. La nuova agenzia arriverà ad avere mille dipendenti a tempo indeterminato entro il 2020, più del doppio di quanti oggi ne conta Frontex. Ed è anche prevista la costituzione di una squadra di riserva di guardie costiere formata da 1.500 esperti. Equipaggi che andranno riforniti da testa a piedi, appunto. E per il 2017 per Frontex è previsto anche un extra budget di 31,5 milioni di euro. Già dal 2004, fa notare Frank Slijper, uno degli autori del report, «l’industria delle armi ha messo radici profonde nel sistema decisionale di Bruxelles. Preoccupa l’abilità con cui queste aziende influenzano l’agenda del dibattito e indirizzano le decisioni».

Difficile conoscere con esattezza il valore degli investimenti per il controllo delle frontiere in Europa e nei singoli Stati membri. Del budget europo pianificato dal 2014 al 2020 di 960 miliardi, la parte relativa a “sicurezza e cittadinanza”, che include anche il controllo delle frontiere, occupa l’1,5 per cento. Ma a questi fondi vanno aggiunti i finanziamenti extra budget e le operazioni ad hoc che i politici europei annunciano a scadenze regolari. La spesa nelle misure di sorveglianza dei confini esterni all’Ue rappresenta il 42% dei 546 milioni di euro spesi in questi anni. Tra gli strumenti acquistati tramite i denari dell’External Borde Fund, ci sono 54 sistemi di sorveglianza dei confini, 22.347 articoli per la sorveglianza delle frontiere e 212.881 articoli destinati agli equipaggi per il controllo dei confini.

Una gallina dalle uova d’oro, mentre gli sbarchi non si fermano e i trafficanti sono pronti a mutare velocemente le rotte. Le aziende big del mercato delle armi in questi anni hanno creato o espanso le divisioni sicurezza. Finmeccanica Leonardo già dal 2009 ha puntato sui sistemi di sicurezza e controllo delle frontiere. Accanto a Airbus, Thales e Safran. Mentre per i rifornimenti tecnologici, in testa si trova la multinazionale spagnola Indra, leader nel settore It. Finmeccanica ed Airbus sono i principali firmatari dei contratti con l’Ue per il rafforzamento dei confini: gli elicotteri e i sistemi di sorveglianza elettronica sono il grosso della spesa. Airbus, che con il business delle frontiere raccoglie 200 milioni di ricavi all’anno, è anche al primo posto per numero di contratti per la ricerca sulla sicurezza.

Dal 2002, l’Europa ha finanziato 56 progetti di ricerca nel settore della protezione delle frontiere, per un totale di oltre 316 milioni di euro. Compartono in cui lavorano anche diverse aziende israeliane, le uniche non europee (grazie a un accordo del 1996 tra Israele ed Europa), che si occupano dei controlli alle frontiere lungo il muro con la Palestina e il confine tra Gaza e l’Egitto. Sono le stesse aziende, tra l’altro, che hanno contribuito a fortificare le recinzioni ai confini in Bulgaria e Ungheria.

Ma oltre agli elicotteri e ai sistemi informatici delle big, troviamo anche tante aziende più piccole che beneficiano del business del controllo delle frontiere. BAE Systems ad esempio ha sottoscritto un contratto con la Romania da 7,6 milioni di sterline per la fornitura di sistemi di sorveglianza mobile, visori notturni e visori termici. La stessa azienda lavora con il governo britannico per sviluppare un sistema di monitoraggio tramite i droni. La svedese Saab, che produce sistemi di sorveglianza aerei delle coste, ha venduto i suoi prodotti a Estonia, Francia, Grecia, Svezia e Regno Unito. E da giugno lavora anche al monitoraggio dei confini croati. Anche la Siemens ha messo il naso nel mercato, implementando un sistema di informazioni per il monitoraggio dei confini nazionali in Croazia, cofinanziato dalla Commissione europea.

Molti Paesi europei hanno fortificato le frontiere anche all’interno della stessa area Schengen: Austria, Estonia, Macedonia, Ungheria e tanti altri. E una frontiera non è solo una frontiera. Prevede l’uso di tecnologie per l’individuazione dei migranti, recinzioni, sistemi di momitoraggio, cecchini, telecamere, radar, comunicazioni wireless, database per l’identificazione dei migranti, e anche droni.

E mentre il business delle frontiere per fermare i flussi di migranti cresce, cresce anche l’export di armi dall’Ue. Quello che il report della ong “Stop Wapenhandel” fa notare è che Airbus, Finmeccanica e Thales, coinvolte in prima linea nella difesa dei confini europei, sono anche tre delle prime quattro aziende europee esportatrici di sistemi militari nelle zone di conflitto da cui i rifugiati fuggono. Arrivando nel 2015 a 95 miliardi di euro di ricavi totali. D’altronde quella stessa Europa che oggi difende le sue frontiere, tra il 2005 e il 2014 ha autorizzato l’esportazione di 82 miliardi di euro in armi verso Nord Africa e Medio Oriente, dall’Iraq all’Arabia Saudita, dall’Algeria al Marocco. Persino in quei Paesi con parziale embargo stabilito dall’Ue e dalle Nazioni Unite, ci sono state esportazioni di armi significative. Solo nel 2014 si è registrato un calo dell’export. Niente di umanitario, spiegano nel report. La decrescita si può spiegare con una riduzione della spesa in armamenti da parte dell’Arabia Saudita, per via del calo del prezzo del petrolio.

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