Da quasi trent’anni c’è una delega apposita nel governo. La Boschi cerca di entrare nella storia, come provarono a fare Bossi e Calderoli. Ma l’elenco dei ministri che non ce l’hanno fatta a cambiare la Costituzione è lungo.
La strada del paradiso delle riforme è lastricata di molti ministri che cercavano un posto nella storia ma sono finiti dimenticati in una pagina di Wikipedia. Se a Maria Elena Boschi riuscirà di vedere approvata dal prossimo referendum la revisione della Costituzione – che ha curato in questi due anni in Parlamento per conto di Matteo Renzi, non senza controversie – il suo nome entrerà sicuramente nei futuri libri di storia repubblicana. Donna, trentacinquenne, avvocato, deputato del Pd, la Boschi è il volto dell’era renziana. Le sue fortune seguiranno la parabola del premier-segretario del Pd, tanto che c’è chi in questi due anni ha scommesso che dietro al rapporto (politico) fra i due ci sia un preciso disegno di potere, con l’attuale ministro delle Riforme destinata a succedere a Renzi nella leadership quando verrà il momento. Moltissimo, se non tutto, dipenderà appunto dall’esito del referendum d’autunno, su cui i sondaggi hanno cominciato a rilevare parecchie insidie.
Da quasi trent’anni, l’Italia ha un ministro con la delega alle Riforme. Già questo la dice tutta sui tempi della politica nostrana. Ma se si scorre l’elenco delle Boschi di turno si capisce al volo che prima di lei in pochi avevano avuto una delega politica così forte. Andando a ritroso, gli unici due che possono competere sono Umberto Bossi e Roberto Calderoli, ministri delle Riforme degli ultimi governi Berlusconi. Avevano competenze specifiche per le riforme istituzionali, ma con un’aggiunta esplicita: il loro mandato era di realizzare il federalismo o, in alcuni momenti, la devolution. Ci aveva provato Bossi, dal 2001 al 2004, poi la malattia del fondatore della Lega Nord ha imposto un cambio al governo, fino al ritorno nella stessa posizione dal 2008 al 2011. Calderoli, oggi vicepresidente del Senato, arrivò come la Boschi al test del referendum: la riforma di allora venne bocciata nel 2006, subito dopo la sconfitta del centrodestra alle elezioni politiche da parte dell’Unione di Romano Prodi. Nella recente storia repubblicana c’è un terzo ministro delle Riforme leghiste, Francesco Speroni, che fu nominato nel 1994, quando avrebbe dovuto entrare al governo l’ideologo Gianfranco Miglio. Di Speroni, non è rimasto segno.
Speroni, Martinazzoli, Elia, Motzo, Chiti, Quagliariello: a livello mediatico la Boschi ha già fatto meglio di loro. Ma finché non si saprà l’esito del referendum, non potrà dire di aver avuto miglior fortuna politica degli altri ministri delle Riforme
Se il centrodestra può dire di aver sfiorato la grande riforma costituzionale, lo stesso non si può dire però degli altri schieramenti, fra prima e seconda Repubblica. C’è infattti un lungo elenco di ministri delle Riforme che vengono ricordati per altri incarichi o altre vicende politiche. Il primo fu nel 1988-1991 il repubblicano Antonio Maccanico, nei governi De Mita e Andreotti. Dopo Maccanico – che nella sua carriera era stato a lungo segretario generale del Quirinale e, anni dopo, avrebbe ricevuto persino un incarico esplorativo per formare un governo – arrivò il diccì Mino Martinazzoli, finito negli annali come l’ultimo segretario della Democrazia cristiana sulle macerie di Tangentopoli. Martinazzoli è stato ministro delle Riforme fra il 1991 e il 1992, ultimo governo Andreotti. L’incarico fu affidato anche nel 1993 durante il governo Ciampi, e andò a un altro democristiano, Leopoldo Elia. Anche Giuliano Amato è stato ministro delle Riforme, fra il 1998 e il 1999, governo D’Alema, dopo essere stato e prima di tornare alla presidenza del Consiglio. L’elenco non sarebbe completo senza citare Giovanni Motzo, ministro tecnico del governo Dini, Vannino Chiti nel Governo Prodi del 2006 e Gaetano Quagliariello, ex berlusconiano e immediato predecessore della Boschi nel governo Letta.
A livello mediatico, Maria Elena Boschi ha già fatto meglio di tutti loro. Ma finché non si saprà l’esito del referendum, non potrà dire di aver avuto miglior fortuna politica degli altri.