Con la malattia della Deutsche Bank forse si sta esagerando. Certamente ci sono dei fatti: le multe miliardarie, l’alto rischio sistemico certificato dal Fmi, la bocciatura della filiale americana negli stress test della Fed. E il rischio di una nuova bacchettata agli stress test europei di fine luglio. Rischio che ha fatto salire il valore dei Credit default swap ai livelli di febbraio, il doppio rispetto allo scorso dicembre. Tutto questo si accompagna alla discesa del titolo in Borsa nell’ultimo anno e alle valutazioni di analisti, come quelli di Barclays, secondo cui saranno necessarie nuove ricapitalizzazioni, dopo quelle degli scorsi anni. Insomma, tante gatte da pelare.
Ma, piuttosto che soffiare sul fuoco del panico, è meglio fermarsi e guardare con distacco quegli stessi dati. È quel che ha fatto con Linkiesta Nicola Borri, assistant professor di Economia alla Luiss e tra gli osservatori del mondo bancario più apprezzati in Italia. Da giorni studia DB per un’analisi per lavoce.info ed è convinto: «La situazione di Deutsche Bank non è diversa da quella di altre banche europee», tutte in difficoltà a causa dei tassi bassi della Bce. Tra la preoccupazione dei mercati e il trambusto che si sta facendo in Italia passa la battaglia politica di Matteo Renzi di usare la vicenda della banca tedesca per ottenere dei margini di manovra nelle regole sul bail-in. In altre parole per intervenire in Mps senza avviare una procedura di risoluzione che coinvolga anche gli obbligazionisti.
«Chi conosce la realtà delle cose, sa che la vera questione sulla finanza europea non sono gli Npl (non performing loans, ovvero crediti deteriorati, ndr) delle banche italiane, ma sono i derivati di altre banche», ha detto Renzi mercoledì 6 luglio, aggiungendo: «Se la questione degli Npl vale uno, quella dei derivati vale 100».
Partiamo quindi dall’esposizione ai derivati. Il dato al profano fa cadere la mascella: circa 54mila miliardi di euro di esposizione. Ma, attenzione, si tratta dell’esposizione lorda, altrimenti detta nozionale, che «conta poco o niente», dice Borri. Questo perché nel mercato dei derivati molte posizioni di segno opposto si cancellano l’un l’altra. Se per esempio un derivato è legato all’aumento dei tassi, un altro è legato alla loro discesa. Bisogna togliere dal calcolo questi annullamenti vicendevoli, con un processo che si in gergo si chiama “nettare”. A quanto ammonta l’esposizione netta? Nel bilancio 2015 della banca, si trovano due voci: il valore di mercato positivo (asset) per 634 miliardi; e un valore di mercato negativo (liabilities) per 615 miliardi. Per un valore di mercato netto di 19 miliardi, due in meno dei 21 dell’anno prima. È tanto o è poco? «È tanto ma è gestibile», commenta Borri. Questo anche «perché dietro ai derivati ci sono garanzie». C’è però un’eccezione che arriva subito. Se una sola delle controparti nella catena delle garanzie fallisce, ha messo in guardia – tra gli altri – il blog Zero Hedge, non ha più senso parlare di netto e lordo, perché si crea un effetto domino. La risposta – spiega Borri – sembra però stare nelle regole dei principi contabili internazionali (Ias), che vietano di “nettare” i derivati con la stessa banca. Cosa, che, invece, è possibile negli Usa, generando il rischio ventilato da Zero Hedge.
Il dato sull’esposizione lorda è impressionante: circa 54mila miliardi di euro. Ma conta quella netta. Che è molta, ma gestibile
C’è poi la questione del rischio sistemico denunciato dall’Fmi. Si rischia di andare sulla lana caprina, ma la questione è sostanziale. Il Fondo monetario dice che Deutsche Bank è la banca che più contribuisce al rischio sistemico nel mondo. «Ma non dice che è la banca più a rischio», puntualizza Borri. Se cadesse sarebbe una catastrofe su scala globale, questo non lo nega nessuno, ma da qui a dire che è in pericolo di fallimento è un altro paio di maniche.
Quanto alla bocciatura degli stress test della Fed, unica banca a non passare assieme a Santander sulle 33 esaminate? In questo caso le precisazioni sono due. La prima: non è stata bocciata tutta la Deutsche Bank, ma una filiale che opera negli Stati Uniti e che si occupa solo di investment banking. La seconda: la bocciatura è stata dovuta non a una mancanza di capitali ma ai sistemi di risk management. In questo giro di stress test erano i modelli di gestione sotto esame.
Quest’ultima precisazione, in realtà, un campanello d’allarme lo fa scattare eccome. La domanda da porsi è una: «Questi sistemi di risk management usati nella filiale statunitense e considerati inadeguati dalla Fed, sono gli stessi usati in Germania?». Ogni banca può avere dei propri sistemi di gestione del rischio, che hanno una certa discrezionalità soprattutto quando si parla di derivati di “livello 3”. Ossia di titoli, generalmente tossici o comunque altamente strutturati, di cui non si può fare una valutazione tecnica con parametri osservabili. In Deutsche Bank questi derivati valgono, al 31 marzo 2016, 30 miliardi, poco meno dei report precedenti (quelli di livello 2 sono 765 miliardi). «Gran parte della valutazione si basa su modelli interni, quella è la variabile di rischio». Non è che la banca faccia quello che vuole.
La supervisione e il controllo sui modelli di rischio spetta alla vigilanza della Bce. Da poco, però. Fino allo scorso anno, i controlli toccavano alle banche centrali nazionali e «c’è sempre il rischio che la vigilanza nazionale sia meno rigorosa di quella europea», commenta il docente della Luiss. La palla passa dunque alla Bce e dobbiamo fidarci sulla sua capacità di essere severa anche con la principale banca tedesca.Il Fondo monetario dice che Deutsche Bank è la banca che più contribuisce al rischio sistemico nel mondo. Ma non dice che è la banca più a rischio
Ci sono altri punti che, in tutti i casi, non vanno sottovalutati. Il primo è la discesa dei valori di Borsa, segno che gli investitori sono pessimisti. Se si guarda l’andamento da un anno a questa parte, DB ha perso il 56,8% del valore. Il dato va comunque inserito in un contesto più ampio: l’indice europeo delle banche ha perso il 43% nello stesso periodo. In Italia il titolo di Mps in 12 mesi è sceso dell’82% e quello della banca italiana più solida, Intesa, del 47 per cento. Stiamo quindi parlando di un calo forte ma in un contesto di calo di redditività generalizzato che ha varie cause (come fattori tecnologici) e su tutte il basso livello di tassi di interessi fissati dalla Bce. Rispetto alle altre banche la DB può però pagare di più gli effetti della Brexit, perché fa molta attività di investment banking: se calano operazioni come quelle di fusioni e acquisizioni, non potrà che risentirne.
Più preoccupante è il valore dei Cds, swap usati come copertura dal rischio di fallimento. Più il tasso sale, più c’è preoccupazione. Quello a cinque anni di Deutsche Bank è salito a 243 punti, contro i meno di 100 del dicembre 2015. Tra le banche europee sta appena peggio di Unicredit e appena meglio di Banco Popolare. Il Cds di Intesa, che alla fine del 2015 era pure intorno ai 100 punti, oggi è a 165. Mps è invece quasi in vetta alla poco invidiabile classifica di settore europea, con 604 punti. Il nervosismo nei mercati quindi c’è e va oltre le interpretazioni spinte dei politici di casa nostra.
Infine c’è la questione degli stress test europei. Quelli degli anni passati hanno finito per attribuire poco peso all’esposizione ai derivati. Quelli che si concluderanno il 29 luglio ne daranno di più e peseranno anche le multe (sono rispettivamente rischi-mercato e rischi operativi). DB ne ha raccolte per molti miliardi, che hanno pesato sul bilancio in perdita del 2015 (-6,8 miliardi). L’episodio più noto è legato allo scandalo della manipolazione del tasso interbancario Libor, chiuso con una maxi transazione da 2,5 miliardi di dollari. Le multe nascono da una serie di condotte spericolate che sono state portate avanti già a partire dalla metà degli anni Novanta e che si sono accentuate con lo sbarco in forze (e con una vera campagna acquisti di trader) negli Stati Uniti. Artefice e simbolo di quell’approccio è Anshu Jain, l’ex ad di origine indiana che si è dimesso nel giugno 2015. DB ha preso molti rischi e, come ha certificato l’Fmi, è un rischio per gli altri. Ma nel 2008, quando Lehman Brothers falliva, la banca tedesca ne uscì in piedi, proprio perché l’esposizione netta non era elevata, in confronto a quella lorda. Un precedente che va considerato, in queste giornate di fibrillazione.
Se poi “le autorità europee” decidessero che Deutsche Bank deve ricapitalizzarsi d’urgenza, facendole fallire gli stress test anche nello scenario base, che accadrebbe? È la domanda che si è posto il blog Phastidio di Mario Seminerio, ipotizzando varie strade: una ricapitalizzazione sul mercato, dopo quelle degli anni passati; una ricapitalizzazione con soldi pubblici applicando il bail-in; oppure, caso estremo, una ricapitalizzazione con soldi pubblici e senza condivisione dell’onere con gli investitoti privati. Ossia ribaltando il tavolo dell’Unione bancaria. In nessun caso, comunque, l’Italia avrebbe da guadagnare dalla disgrazia di Db. Se non altro, scrive Seminerio, «perché noi non abbiamo capacità fiscale per intervenire su vasta scala sulle nostre banche. Non solo: se la Germania facesse saltare le regole del gioco, l’Italia sarebbe spazzata via dal darwinistico “liberi tutti” che si affermerebbe sul mercato un minuto dopo». Cosa succederebbe nella terza ipotesi alla Germania? Una risposta indiretta l’ha data a Linkiesta Alberto Gallo: «Ci sono tre sistemi finanziari in Europa che non hanno fatto le ristrutturazioni necessarie: quelli di Italia, Germania e Portogallo. La Germania ha un basso debito pubblico e volendo potrebbe risolvere tutto in poco tempo».