Solo una su tre delle startup innovative italiane ha un sito web funzionante e solo uno su due è ottimizzato per il mobile. È il quadro che emerge da un’indagine di Instilla, startup milanese specializzata in marketing digitale, che ha analizzato la qualità della presenza online delle startup iscritte al Registro delle Imprese Innovative tenuto dalle Camere di Commercio.
I risultati sfiorano il paradosso. Nell’epoca in cui persino il Dalai Lama apre siti internet e si diletta con le infografiche, sono proprio le imprese italiane più giovani e con pretese smart che alle mail preferiscono il buon vecchio fax.
Delle 5143 startup che Instilla ha preso in esame, infatti, solo 2998 (il 58,3%) hanno indicato di avere un sito web. Di queste, solo 2167 (il 72,3%) ne hanno uno funzionante. Ne consegue che ben il 27,7% possiede invece siti del tutto inutili: non accessibili (per errore interno o timeout del server), con dominio scaduto o in vendita, oppure “under construction”. A ciò c’è da aggiungere che la percentuale di siti web non funzionanti paradossalmente cresce con il passare degli anni: dal 14,3% del 2009 al 30,7% del 2015.
L’introduzione al report – i cui dati sono aggiornati al 31 dicembre 2015 – è lapidaria: “Avere una presenza online efficace e pensata a supporto del business è obbligatorio, lo è per startup che si occupano di digitale ma anche per quelle che operano in altri settori ma che devono avere consapevolezza che gli strumenti digitali sono per loro essenziali”, scrive Emil Abirascid, direttore di Startupbusiness.
Delle 5143 startup che Instilla ha preso in esame, infatti, solo 2998 (il 58,3%) hanno indicato di avere un sito web. Di queste, solo 2167 (il 72,3%) ne hanno uno funzionante
Il commento di Instilla ai dati raccolti ribadisce quello che ormai tutti dovremmo sapere, cioè quanto la presenza online sia ormai fondamentale per ogni tipo di attività: «Presentarsi con un sito che non funziona significa non avere né il desiderio né il bisogno di sviluppare il proprio business e significa essere quindi anonimi e insignificanti per il mercato: quello degli investitori da un lato e quello dei consumatori dall’altro».
E se la presenza web è scarsa, l’ottimizzazione per mobile non può che essere peggio. Anche il Google Mobile Friendly Test (che determina se Google riconosce il sito web come ottimizzato per la visualizzazione da smartphone e tablet) non dà infatti buoni risultati: solo il 68,1% dei siti funzionanti (il 49,2% dei siti dichiarati) ottiene un responso positivo.
E anche la velocità di caricamento analizzata con Google Mobile Page Speed Test è deludente. Tra i siti che hanno passato il test di responsiveness, infatti, solo il 31,2% ha ottenuto un punteggio sufficiente di Mobile Page Speed. In pratica, coloro che dovrebbero innovare il mercato sembrano non essersi ancora accorti che si può andare su internet anche con il cellulare. E questo nonostante Amit Singhal – a capo di Google Search – già a ottobre 2015 aveva annunciato che nel mese precedente le ricerche mobile avevano superato quelle desktop, raggiungendo addirittura i 100 miliardi.
Anche Instilla è un’impresa giovane e gestita da giovani. Il Ceo è Paolo Meola, 28 anni, che ha fondato la sua startup nel 2014 insieme a due soci coetanei: Andrea D’Agostini e Filippo Bernasconi.Propagandare la crescita quantitativa delle giovani imprese rampanti è completamente inutile se poi queste non sono in grado di produrre valore in termini di slancio innovativo
«Mi risulta difficile immaginare che una startup possa essere così poco innovativa da non avere nemmeno un sito internet», spiega a Linkiesta quest’ultimo: «Sicuramente il numero di startup formalmente registrate non è un buon dato per misurare il grado di innovazione delle nostre imprese».
E in effetti propagandare la crescita quantitativa delle giovani imprese rampanti è completamente inutile se poi queste non sono in grado di produrre valore in termini di slancio innovativo per il tessuto economico del Paese. «Noi di Instilla», continua Filippo Bernasconi: «non sappiamo se effettivamente le startup siano così poco innovative, o semplicemente se società che non sono affatto startup si fregino di questo titolo per ottenere dei benefici». In pratica, non è da escludere che in mezzo a queste 5mila startup si nascondano tante normali PMI.
Questo però si potrà capire meglio nel prossimo studio che pubblicherà Instilla e che analizzerà le imprese finanziate da venture capitalist, per avere un quadro più realistico del nostro ecosistema e poter ovviare a quella che Emil Abirascid definisce: “la distorsione che emerge dalla scelta di definire le startup per decreto e non lasciare al mercato l’azione di selezione dei migliori”.
Secondo molti, tra cui Abirascid, che cos’è startup o no lo deve stabilire il mercato. Ma se quest’ultimo si rivelerà effettivamente un arbitro più affidabile, lo sapremo solo a nuova indagine conclusa.