Cosa Nostra aveva messo le mani su Expo. Nonostante le linee guida, i codici e i protocolli riveduti e corretti più volte, tra i ritardi e la fretta generale, la mafia era entrata nel decumano realizzando gli allestimenti dell’auditorium, del Palazzo dei congressi, dei padiglioni di Francia, Guinea e Qatar, e pure lo stand della birra Poretti.
Il 6 luglio la Guardia di finanza ha eseguito 11 arresti, di cui quattro ai domiciliari, su richiesta dei magistrati milanesi antimafia Sara Ombra e Paolo Storari, coordinati dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini. Le accuse vanno dall’associazione a delinquere finalizzata a favorire gli interessi di Cosa Nostra, al riciclaggio e alla frode fiscale. Al centro delle indagini c’è il consorzio di cooperative Dominus Scarl. Società che, a guardare i conti, lavora quasi esclusivamente con Nolostand spa, che si occupa dell’allestimento degli stand ed è interamente controllata da Fiera Milano, l’ente che organizza i principali eventi milanesi, dalla Borsa internazionale del turismo fino all’Expo del 2015. Su 20 milioni di fatturato in tre anni, 18 milioni Dominus Scarl li aveva incassati con Nolostand spa. Anche attraverso l’allestimento dei padiglioni di Expo.
Tra le undici persone arrestate, ci sono i due amministratori di fatto della Dominus scarl, Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, accusati di associazione per delinquere finalizzata a realizzare fatture false, appropriazione indebita e riciclaggio. Con l’aggravante di aver agito per favorire i clan mafiosi siciliani di Pietraperzia, in provincia di Enna. Ilda Boccassini ha parlato in particolare di legami con la nota famiglia degli Accardo. Agli arresti, per ipotesi di riciclaggio, è finito anche un noto avvocato di Caltanissetta, Danilo Tipo, difensore in importanti processi di mafia, fino a pochi mesi fa presidente della Camera penale nissena ed ex assessore comunale.
Non ci sono indagati né nell’ente Fiera Milano, né in Expo, né nella controllata Nolostand spa. Ma, per via dei mancati controlli, la Procura di Milano ha chiesto comunque per Nolostand l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria per sei mesi nelle mani di Pier Antonio Capitini. Una fattispecie prevista dall’articolo 34 del decreto legislativo 159 del 2011 che può essere applicata, anche in assenza di indagati, nel caso in cui la negligenza dei dirigenti possa aver in qualche modo agevolato l’attività di persone indagate per gravi reati come l’associazione mafiosa e il riciclaggio. Quello che viene rimproverato a Nolostand è che Nastasi e Pace, già coinvolto in un processo per mafia e poi assolto, e sposato tra l’altro con la figlia di un condannato per mafia, intrattenevano rapporti con i dirigenti della società nonostante non avessero nessuna carica di rappresentanza ufficiale nel consorzio Dominus scarl. Una violazione del codice etico di Fiera Milano, anzitutto. L’amministratore unico della Dominus era il padre di Giuseppe Nastasi, Calogero, anche lui arrestato, che aveva anche un suo ufficio “legittimo” in Fiera Milano.
Quello che gli inquirenti sottolineano è che c’è stata una «censurabile sottovalutazione» e «nessuna riflessione su alcune evidenti anomalie». I presunti mafiosi, secondo gli inquirenti, intrattenevano «costanti rapporti» con i vertici e i dirigenti della Nolostand «al fine di ottenere l’aggiudicazione o di assicurarsi il rinnovo dei contratti di appalto dei servizi di trasporto e facchinaggio di siti fieristici».
E intanto «fiumi di denaro in nero» scorrevano «da Milano fino alla Sicilia», ha spiegato Ilda Boccassini. Un sodalizio di imprenditori siciliani e lombardi, alcuni dei quali si erano fatti addirittura costruire in casa doppi fondi per nascondere il denaro contante. La figura principale dell’inchiesta è quella di Giuseppe Nastasi, imprenditore specializzato, tra le altre cose, negli allestimenti fieristici. Che, «insieme ad altri soggetti che fungono da prestanome, commette una serie di reati tributari per importi rilevanti».
Nastasi era socio in affari con Liborio Pace, «che dalle indagini appare come elemento di collegamento» con la famiglia mafiosa di Pietraperzia «partecipando all’attività di riciclaggio del denaro» proveniente dai reati tributari. I due si sarebbero serviti di prestanome sia per la gestione di società operative sia per le società “cartiere”, usate allo scopo di stampare fatture false. Una parte del denaro era destinata a Cosa Nostra, ma è emerso anche che Nastasi usava i soldi anche per scopi personali, dalle vacanze alle abitazioni. In un’intercettazione si compiace addirittura del fatto di avere soldi in contanti con banconote da 500 euro.
Gli indagati disponevano di enormi quantità di contante, distratto dalle verie società, che veniva poi “ripulito”. Il meccanismo descritto è questo: Nastasi avrebbe consegnato gli assegni ad altri imprenditori, che li facevano incassare da parte delle società cartiere, che a loro volta trasferivano i soldi sui conti esteri, dai quali ritornavano ripuliti nelle mani di Nastasi. Le indagini della Dda di Milano si sono avvalse anche di rogatorie avviate presso le autorità di Slovenia, Slovacchia e Liechtenstein per «mettere le mani su conti correnti esteri che fanno riferimento ad alcuni degli 11 arrestati».
Milioni di euro che, ottenuti anche con gli appalti milanesi, compresi quelli di Expo, tornavano poi in Sicilia. Nelle valigie, nelle borse di plastica e persino in una piscina gonfiabile. Nell’ottobre del 2015 l’avvocato Danilo Tipo era stato fermato con 295mila euro contanti divise in buste di plastica e sistemate nel bagagliaio della sua Fiat 500 partita da Milano e diretta in Sicilia. Mentre Pace avrebbe cercato di trasportare oltre 400mila euro in contanti nascosti in una valigia all’interno della custodia di una piscina gonfiabile per bambini.
Denaro che scorreva da Nord a Sud. Superando controlli, codici etici e protocolli di legalità che pure a Milano erano stati sottoscritti. È «chiaro», scrive il gip di Milano Maria Cristina Mannocci nell’ordinanza di custodia cautelare, che un «meccanismo quale quello emerso dalle indagini è stato reso possibile da amministratori di aziende di non piccole dimensioni, consulenti, notai e commercialisti che in sostanza ‘non hanno voluto vedere’ quello che accadeva intorno a loro». Il giudice parla di «gravi superficialità», ma «certamente anche grazie a convenienze», da parte di «soggetti appartenenti al mondo dell’imprenditoria e delle libere professioni». E per quanto riguarda la Nolostand, il pm Paolo Storari ha spiegato che «c’è stata una colpa nell’organizzazione: la società ha sbagliato a scegliere i propri fornitori. Quello che è emerso è che codici etici, protocolli di legalità e modelli organizzativi sono vissuti come qualcosa di cosmetico, come carta messa lì tanto per metterla».