Bombe in Libia: è la campagna elettorale di Hillary, bellezza

I bombardamenti di oggi non sono una novità: i raid c’erano già stati nello scorso aprile. Ma oggi la Clinton, che nel 2001 fu tra i sostenitori dell’intervento contro Gheddafi, ha bisogno di dare la spallata finale all’Isis in Libia: un ottimo argomento da spendere in campagna elettorale

Lo Stato Islamico in Libia è una bestia ferita. In Cirenaica – dove operano più che altro milizie libiche che si sono affiliate al Califfato – le truppe del generale Haftar, aiutate da forze speciali occidentali (francesi, inglesi, americane e pare anche italiane), stanno conducendo una logorante guerriglia contro l’Isis. In Tripolitania le milizie di Misurata, avversarie di Haftar e fedeli al governo di unità nazionale di Serraj con sede a Tripoli, hanno costretto quel che resta dei miliziani del Califfo in un’area di pochi chilometri quadrati nella città costiera di Sirte.
Ma la bestia ferita e in trappola è anche incredibilmente feroce: nel corso dell’offensiva delle truppe governative sono morti 300 soldati e 1.500 sono rimasti feriti. Ripulire gli ultimi quartieri dai fanatici, pronti al martirio come kamikaze e che hanno disseminato la città di trappole esplosive, si sta dimostrando molto complicato. Di qui la richiesta di Serraj agli Stati Uniti: intervenite con raid mirati contro lo Stato Islamico a Sirte. Il primo agosto (complice forse anche la campagna elettorale negli Usa) le bombe americane hanno cominciato a cadere, consentendo alle milizie di Misurata di avanzare ulteriormente nel centro della città, e l’Onu ha dato il proprio benestare il giorno successivo (anche in risposta alle proteste della Russia), dichiarando i raid americani “legali” in base alle proprie risoluzioni sulla Libia.

Anche negli ultimi anni la Francia ha “giocato sporco” in Libia, sostenendo ufficialmente gli sforzi della comunità internazionale per creare prima e rafforzare poi un governo unitario, ma inviando le proprie forze speciali a sostegno di Haftar a Tobruk e triangolando con gli altri sponsor del generale, Egitto e monarchie del Golfo soprattutto

Non si può parlare di “guerra”. Gli Stati Uniti già nel passato avevano compiuto raid in Libia contro obiettivi dello Stato Islamico – ad esempio a febbraio scorso, quando avevano distrutto un centro di addestramento e ucciso Noureddine Chouchane, ritenuto la mente di diversi attentati jihadisti in Tunisia -, anche senza la richiesta o il via libera del governo di Serraj.
Quello attuale è probabilmente un tentativo di dare il colpo di grazia all’Isis in Tripolitania dopo che l’operazione delle forze governative libiche “al Bunian al Marsus” (Solide Fondamenta) lo ha stretto in una sacca senza uscite a Sirte. L’Italia si è prontamente dichiarata favorevole all’intervento americano col ministro Gentiloni, dicendosi anche disponibile a valutare eventuali richieste di impiego delle basi Usa sul suo territorio. Il sostegno internazionale a Serraj è infatti il frutto di un grande lavoro diplomatico di Roma negli ultimi anni, che ha sempre frenato l’ipotesi di interventi militari unilaterali e spinto invece per la soluzione negoziale mediata in ambito Onu.
Ora che il governo di unità nazionale nato sotto l’egida delle Nazioni Unite sembra da un lato in massima difficoltà – perché arriva da mesi in cui poco è riuscito a fare nel migliorare la vita dei cittadini libici riportando pace, soldi ed energia elettrica nel Paese – e dall’altro in procinto di uscire dalla fase acuta della crisi (l’Isis è allo stremo e, soprattutto, è appena arrivato il via libera a riprendere la produzione petrolifera in alcuni impianti), una vittoria simbolica a Sirte potrebbe dare una spinta fondamentale al suo radicamento in Tripolitania.

Il supporto americano all’agenda propugnata dall’Italia nasce soprattutto dalla storia della Libia degli ultimi cinque anni. Nel 2011 Obama intervenne (all’epoca il contesto in Medio Oriente era quello della Primavera Araba) ma malvolentieri, su pressione della Francia – che aveva forzato la mano avviando i bombardamenti contro Gheddafi e a sostegno degli insorti in modo unilaterale, ma senza poi avere le capacità belliche per sostenere da sola l’operazione – e dell’Inghilterra, suoi alleati nella Nato.
Lo scorso aprile il presidente americano ha ammesso che la cosa che più si rimprovera dei suoi otto anni di presidenza è non aver saputo pianificare un “dopo” per la Libia, ma accusa anche di “opportunismo” Parigi e Londra per il fallimento della gestione del dopo-Gheddafi (una stagione di guerra civile tra Tripoli e Tobruk, di penetrazione dell’Isis, e di caos in generale durante la quale, tra le altre cose, fu anche assassinato l’ambasciatore americano nel Paese, Chris Stevens). Anche negli ultimi anni la Francia ha “giocato sporco” in Libia, sostenendo ufficialmente gli sforzi della comunità internazionale per creare prima e rafforzare poi un governo unitario, ma inviando le proprie forze speciali a sostegno di Haftar a Tobruk e triangolando con gli altri sponsor del generale, Egitto e monarchie del Golfo soprattutto. E il Paese è rimasto spaccato in due, con l’Isis ad approfittare dell’anarchia.

Hillary Clinton nel 2011 ricopriva la carica di Segretario di Stato e fu una accesa sostenitrice del coinvolgimento americano nell’aiutare gli alleati europei ad abbattere Gheddafi. Per questo è stata spesso criticata. Poter spendere nella campagna elettorale in corso un eventuale sradicamento dello Stato Islamico dalla Libia sarebbe ottimo per lei

Di qui il perdurante sostegno dell’America alla linea italiana: a parte sporadici raid mirati, evitare interventi militari unilaterali (e in particolare un’invasione di terra) dando invece spazio al processo negoziale tra fazioni libiche, con l’assistenza dell’Onu, per cercare di consolidare le istituzioni del Paese. Al momento sembrerebbe che tale linea stia (finalmente) producendo dei risultati in termini di stabilizzazione della Tripolitania, anche se il perdurante sostegno di Francia, Egitto ed Emirati ad Haftar – unito all’incapacità di Serraj di trovare sponde politiche e militari abbastanza forti nell’est della Libia – hanno fatto sì che la Cirenaica restasse a sé stante di fatto estranea al controllo del governo di Tripoli.
Tanto che alla fine anche altri Stati, inclusi pare l’Italia e gli Usa, hanno finito col mandare proprie forze speciali a Tobruk per aiutare (e monitorare) le truppe di Haftar nella loro guerra alle sigle jihadiste. Se un domani il Paese venisse diviso in due, nessuna delle potenze straniere coinvolte sembra voler essere considerata ostile né da Serraj (che amministra le ricchezze naturali dell’ovest della Libia) né da Haftar (che invece controlla quelle dell’est).

Il recente intervento americano pare poi avere anche motivazioni di carattere interno. Hillary Clinton, candidata democratica alla presidenza, nel 2011 ricopriva la carica di Segretario di Stato e fu una accesa sostenitrice del coinvolgimento americano nell’aiutare gli alleati europei ad abbattere Gheddafi. Per questo è stata spesso criticata. Poter spendere nella campagna elettorale in corso un eventuale sradicamento dello Stato Islamico dalla Libia sarebbe ottimo per lei.
Inoltre, se dovesse diventare il prossimo Presidente americano, la sua linea di politica estera mediorientale (che a livello per ora solo teorico sembra decisamente più interventista di quella di Obama) sarebbe più facilmente attuabile con una Libia magari divisa in due, ma non ripiombata nel caos per l’eventuale collasso del governo Serraj.

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