«La verità? È che oggi dici Germania e pensi “prima o poi qualcosa dovremo pagare”. È un sentimento che vale in tutti i Paesi indebitati dell’Unione Europea, un fronte fronte e determinato di cui l’Italia è capofila. È la loro resistenza che sta ammazzando l’Europa. L’idea che gli indebitati, alla fine, avranno la meglio sui tedeschi». Non usa mezze misure Paolo Mieli, giornalista e storico, già direttore de La Stampa e del Corriere della Sera, per inquadrare il fragile equilibrio su cui si regge oggi l’Unione Europea del post-Brexit.
Intervenuto a Cortina d’Ampezzo insieme allo storico Giovanni Sabbatucci per presentare il libro “Fattore G” di Francesco Cancellato, direttore de Linkiesta.it, nell’ambito della manifestazione “Una montagna di libri”, Mieli ha ribadito la sua convinzione che non solo la Germania abbia ragione, a pretendere rigore e austerità dall’Italia e dagli altri Paesi del sud Europa, ma che la costruzione di un superstite europeo, se mai sarà, passi necessariamente dall’egemonia di Berlino: «Bisogna dirlo in maniera esplicita: non esiste altra guida, altro progetto, altra identità per l’Europa di quella tedesca».
I motivi? Secondo Sabbatucci non sono da cercare nella sola cronaca degli ultimi anni, quanto piuttosto nella Storia, con la S maiuscola: «La Germania sta in mezzo: oggi confina a ovest con la Francia e a est con la Polonia, ma nel 1871 oltre l’Oder c’era la Russia. Questa centralità, per la Germania, è stata nel contempo un pericolo e un‘opportunità – continua Sabbatucci -, perché se chi ti sta ai lati si allea, ti fa secco. Bismarck, il fondatore dello Stato tedesco, aveva forte il senso della precarietà della Germania. Era prudente, cercava di non spaventare i suoi vicini. I suoi successori non lo fecero. Guglielmo II e Hitler adottarono politiche molto aggressive, che portarono, in successione, alla prima guerra mondiale, al tentativo fallimentare dei vincitori di impedire alla Germania di essere quel che naturalmente era, e infine alla reazione sproporzionata e catastrofica del nazismo, e alla definitiva sconfitta».
Quella che nasce dalle ceneri della croce uncinata, per Sabbatucci, è una Germania completamente diversa. Ancora più forte, se possibile a livello economico, ma anche «una nazione che non ha mai praticato alcuna forma di revanscismo, che non ha mai messo in discussione i confini nazionali usciti dalla seconda guerra mondiale, che ha accolto 12 milioni di suoi profughi e dagli anni 50 in poi un mare di immigrati dall’Italia, dalla Turchia, dall’Iran. E che quarant’anni dopo è riuscita a includere e e federare anche la metà che era stata inglobata dal blocco comunista, oltre a essere stata una delle nazioni protagoniste del processo di unificazione europea».
«Europa e Germania si sono stufati delle nostre chiacchiere e della nostra versione stracciona e mistificatoria del pensiero di Keynes, secondo la quale bisogna continuare a riempire di soldi le tasche di giocatori compulsivi, debitori che non pagheranno mai, per permettergli di continuare a perderli al tavolo verde»
È proprio l’Europa il nodo del contendere, oggi. Un’Europa che non si capisce che fine farà, dopo il referendum britannico che ha visto vincere vuole uscirne. In cui tra retorici richiami allo “spirito di Ventotene” e muri che si alzano lungo frontiere che dovrebbero essere aperte. Nella quale pesa come un macigno l’eterna dialettica tra Stati indebitati e non, tra chi chiede il rispetto rigido delle regole e chi vuole tutta la flessibilità possibile. Una dialettica in cui per Paolo Mieli è piuttosto chiaro chi abbia torto e chi ragione: «Per capire il conflitto tra Italia e Germania, bisognerebbe andare in Canada. Un Paese pieno di boschi. 400mila chilometri quadrati di meraviglia, tutelati da circa 4.200 ranger. Non così fortunata come il Canada è la Sicilia. Che ha meno boschi, quasi niente, ma in compenso ha 24mila guardie forestali. A Sortino, un piccolo Paese di 9000 abitanti, ci sono più forestali che in Lombardia. Tra loro sono stati recentemente scoperti pure una cinquantina di mafiosi condannati con sentenza definitiva. La questione tedesca, all’osso, è tutta qua: noi chiediamo a un operaio di Dusseldorf di lavorare per pagare un po’ dello stipendio dei forestali siciliani».
Fuori di metafora, continua Mieli, «c’è un Paese spendaccione, che da anni promette di eliminare gli sprechi e ridurre il debito pubblico, che ha firmato trattati che gli impongono di farlo. E che, nonostante questo, non lo fa. Al contrario, continua a chiedere di allargare il cordone della borsa, anche nel contesto di tragedie come il naufragio di un barcone pieno di migranti nel mare di Sicilia o di un terremoto nel centro Italia, per spendere come prima e più di prima». Il risultato? Che oggi, «Europa e Germania si sono stufati, delle nostre chiacchiere e della nostra versione stracciona e mistificatoria del pensiero di Keynes, secondo la quale bisogna continuare a riempire di soldi le tasche di giocatori compulsivi, debitori che non pagheranno mai, per permettergli di continuare a perderli al tavolo verde». Una prospettiva che, secondo Mieli, non ha senso né logico, né tantomeno morale: «Chi l’ha detto che se ti taglio il debito, tu cominci a rigare dritto? – si chiede Mieli – E se lo lo faccio coi greci, come devo comportarmi con gli spagnoli, i portoghesi, i ciprioti, gli italiani? Che Unione è quella che si fonda sui trattati e in cui nessuno li rispetta?»
«Il consenso non si crea con l’imposizione, bensì dialogando, concedendo. L’esempio è quello del piano Marshall. Gli americani, tra prestiti agevolati e finanziamenti a fondo perduto, si sono garantiti la loro egemonia culturale sul Vecchio Continente. La forza della Germania, invece, suscita paura, avversione, risentimento. Perché non offre concessioni, ma chiede virtù»
Il dilemma è per solutori più che abili: «La verità è che alla Germania non manca nulla, tranne il consenso – osserva Sabbatucci -, ma il consenso non si crea con l’imposizione, bensì dialogando, concedendo. L’esempio è quello del piano Marshall. Gli americani, tra prestiti agevolati e finanziamenti a fondo perduto, si sono garantiti la loro egemonia culturale sul Vecchio Continente. Se tutti abbiamo visto “Un americano a Roma” è perché gli Stati Uniti erano erogatori di soldi, di derrate alimentari, di sigarette. La forza della Germania, invece, suscita paura, avversione, risentimento. Perché non offre concessioni, ma chiede virtù».
«È vero – concede Mieli – a volte la Germania è troppo rigida. Ma dobbiamo dirlo in maniera esplicita: non esiste Europa che non sia a guida tedesca. E credo sia il tempo di esaminare i motivi storici di questo. Perché la Storia è andata in modo tale che il cuore del nostro continente è lì. La Germania, dal 1871 a oggi è uscita stremata da due guerre mondiali e dalla Guerra Fredda. E ogni volta, nel giro di pochi anni, si è ripresa in un modo sensazionale, ridiventando per tre volte la nazione più potente d’Europa. Qualcosa vorrà pur dire». L’unica differenza, forse, è che un tempo essere i più potenti nel Vecchio Continente voleva dire essere i più potenti al mondo. Oggi invece non vuol dire nulla, o quasi. E forse è questo ciò di cui tedeschi, italiani, europei in generale, dovrebbero preoccuparsi.