Turchia, il vero pericolo per la democrazia è Gulen, non Erdogan

Erdogan usa la religione per il potere e i soldi, ma il politico in esilio negli Usa, Fetullah Gulen, usa potere e soldi per la religione. L’Occidente farebbe bene a non abbandonare Erdogan, se non vuole perdere la Turchia, che rischia di finire in braccio allo zar Putin

Da una parte importante della Turchia laica, liberale e democratica arriva un’accusa pesante nei confronti dell’Occidente: non avete capito nulla del golpe, dei suoi presupposti e delle sue conseguenze. E stavolta non perché si sarebbe sottovalutata la pericolosità del presidente autocrate, Recep Tayyp Erdogan, ma quella del suo avversario, il religioso e politico in esilio negli Usa, Fetullah Gulen. «La Turchia post-Kemalista, emersa nello scorso decennio, è stata dominata non da uno ma da due poteri islamisti», spiega su al-Monitor Mustafa Akyol, giornalista liberale turco. «Uno è il partito di Erdogan, un movimento di massa le cui tendenze palesemente autoritarie sono sotto gli occhi di tutti. L’altro è la comunità di Gulen, con il suo culto religioso e segreto, la cui bruciante brama di potere viene mascherata dietro la facciata di convenienza di un “islam moderato”.
Questo secondo potere islamista si è dimostrato il più pericoloso nella notte del 15 luglio con un sanguinoso tentativo di golpe che ha colpito al cuore la nazione. Questo è il motivo per cui liberali, socialisti e kemalisti stanno ora dalla parte di Erdogan su questo particolare problema – quello di ripulire la Turchia dallo “Stato parallelo” gulenista – pur mantenendo intatte le critiche all’autoritarismo del regime di Erdogan».

Di qui l’amaro avvertimento di Akyol: «In un momento in cui la purga dei gulenisti potrebbe trasformarsi in una caccia alle streghe – i sostenitori più accesi di Erdogan tacciano di gulenismo qualsiasi critico del presidente – Ankara avrebbe bisogno di amici ragionevoli, e governi, istituzioni e mass media occidentali potrebbero ricoprire questo ruolo se solo iniziassero a capire cosa sta succedendo veramente. Altrimenti la Turchia, un Paese sempre pronto a credere a tesi complottiste, potrebbe scambiare la negligenza, l’ignoranza e il pregiudizio occidentale per inimicizia. Il risultato sarebbero pesanti conseguenze negative nei rapporti tra Turchia e Occidente, potenzialmente disastrose per entrambi e soprattutto per quella parte di turchi che ancora sperano di vedere il loro Paese diventare una democrazia liberale compiuta». Sarebbe quindi importante, secondo questa tesi, non lasciare solo Erdogan dimostrando anzi comprensione per quanto è successo prima e per quanto sta succedendo ora.

Il potere islamista di Fetullah Gulen si è dimostrato il più pericoloso nella notte del 15 luglio con un sanguinoso tentativo di golpe che ha colpito al cuore la nazione. Questo è il motivo per cui liberali, socialisti e kemalisti stanno ora dalla parte di Erdogan su questo particolare problema


Mustafa Akyol

E che il presidente turco si senta abbandonato dall’Occidente – se non proprio tradito – è evidente. La visita del 9 agosto di Erdogan a San Pietroburgo per incontrare il presidente russo Vladimir Putin (una personalità con cui ha molti tratti in comune) è un campanello d’allarme: dopo l’abbattimento di un cacciabombardiere russo in Siria da parte dell’aviazione turca a fine 2015 i rapporti tra i due Paesi erano estremamente tesi, e le divergenze in Siria (dove Ankara appoggia i ribelli e Mosca il regime di Assad) sembravano destinate a rendere impossibile una piena riconciliazione. Il fatto che Erdogan, ingoiato il rospo (le scuse ufficiali a Putin per l’aereo abbattuto) già prima del golpe, ora addirittura enfatizzi il riavvicinamento con Putin sottolineandone i tratti di reazione anti-occidentale rappresenta una piega inquietante per gli equilibri geopolitici regionali e mondiali. Dopo aver fatto emergere l’Iran sciita (alleato della Russia) dall’isolamento internazionale con l’accordo sul nucleare, facendo infuriare Israele e i propri alleati sunniti, l’Occidente rischia adesso di veder avvicinare a Mosca anche la Turchia, ancora alleata nella Nato ma furiosa coi suoi partner.

Contro gli Usa – già colpevoli di supportare i curdi in Siria contro l’Isis – esponenti del governo turco arrivano ad agitare l’accusa di aver avuto un ruolo nel golpe, minacciando gravi conseguenze sull’alleanza se non verrà consegnato Gulen alle autorità turche. All’Europa, “che ci prende in giro da 53 anni” secondo le parole del presidente turco, e le cui critiche per le violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali in Turchia infastidiscono enormemente, non viene riservato un trattamento migliore, anzi.
La minaccia degli ultimi giorni è che se non verranno liberalizzati i visti per i cittadini turchi verrà fatto saltare l’accordo sui profughi, e tre milioni di siriani verranno dirottati verso il confine europeo con la consapevolezza della “bomba politica” che un simile fenomeno rappresenterebbe per gli Stati europei. Il rischio che questa drammatica congiuntura porti a una rottura dei rapporti tra Occidente e Turchia – con magari una fuoriuscita dalla Nato di quest’ultima – viene valutato dagli analisti ancora come estremamente basso. Ma sicuramente è cresciuto rispetto ad appena un mese fa e il piano inclinato sembra indirizzare la situazione verso il peggio.

La preoccupazione dei laici e liberali turchi dovrebbe ora essere quella di capire se, nella valutazione del dopo-golpe, non soffrano della sindrome della “rana nell’acqua che bolle”: gettando una rana in una pentola di acqua bollente questa schizza immediatamente fuori ma, mettendola in una pentola di acqua fredda e riscaldandola poco a poco, la rana non ne salterà mai fuori. Fino a morire bollita

All’accusa turca – anche della sua parte laica e liberale – nei confronti dell’Occidente, reo di non aver capito la situazione, corrisponde specularmente quella occidentale nei confronti della Turchia: da anni Ankara porta avanti i suoi interessi, in particolare in Medio Oriente, senza tenere conto delle esigenze dei suoi alleati e dei sentimenti delle opinioni pubbliche di questi. Prima si è allontanata da Israele per la questione della Freedom Flottilla, arrivando a trescare con Hamas (per l’Occidente un’organizzazione terroristica); poi con la sua “svolta neo-ottomana” in politica estera ha aumentato nel dopo Primavere Arabe l’instabilità regionale; quindi ha cominciato a reprimere in patria diritti e libertà fondamentali, islamizzando la società e ponendo l’Unione europea – con cui da anni tratta il suo ingresso – nella difficile posizione di dover continuare a negoziare per necessità con chi, in base alle leggi e ai valori europei, non avrebbe alcun diritto di pretendere alcunché; in Siria ha contribuito a creare il mostro del jihadismo (pare anche dello Stato Islamico) fino a che non gli si è ritorto contro; nel sud-est reprime la minoranza curda con la ferocia di una sanguinaria dittatura. E in tutto questo sia Bruxelles, sia Washington, sia le capitali europee hanno più di una volta chiuso più di un occhio (per un calcolo di interessi ovviamente, come nel caso dell’accordo sui profughi).

Ora un limite sembra essere stato raggiunto: l’alleanza strategica non sarà messa in discussione dall’Occidente (per cui la Turchia è troppo importante), ma alcune concessioni – su tutte, i rapporti privilegiati con l’Unione europea – non potranno essere estorte da Erdogan coi ricatti. I governi europei che cedessero a simili pressioni rischierebbero di scatenare il malcontento delle proprie opinioni pubbliche, sempre più ostili – complice la concomitante stagione del terrorismo islamico in casa nostra – alla Turchia di Erdogan.
La minoranza laica e liberale turca, secondo fonti diplomatiche europee, non può pensare che l’Europa si accolli altri compromessi al ribasso per tentare di salvare il salvabile in Turchia. Se Ankara dovesse reintrodurre la pena di morte, come prospettato da Erdogan pochi giorni fa di fronte a un milione di manifestanti, i negoziati per l’adesione con Ankara verrebbero interrotti. Se le 72 condizioni su diritti e libertà fondamentali già stabilite non saranno rispettate, l’accordo sui profughi (e la conseguente liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi) salterà. E la preoccupazione dei laici e liberali turchi dovrebbe ora essere quella di capire se, nella valutazione del dopo-golpe, non soffrano della sindrome della “rana nell’acqua che bolle”: gettando una rana in una pentola di acqua bollente questa schizza immediatamente fuori ma, mettendola in una pentola di acqua fredda e riscaldandola poco a poco, la rana non ne salterà mai fuori. Fino a morire bollita.

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