C’è questo figlio, Carlo, di cui non sappiamo nulla, se non che è morto per le botte di un poliziotto che lo ha scambiato per un ultrà facinoroso e violento. Un tragico errore, che cambia l’esistenza di Flaminia, una signora della Roma bene (Roma Nord) “benvestita e a proprio agio nei riti della tribù borghese che frequenta”. Una reduce dagli scontri plumbei degli anni Settanta accomodatasi nei riti quotidiani di una famiglia rispettabile. Ma, come protagonista della storia, Flaminia è soprattutto una madre che cerca vendetta. La storia è quella del romanzo Le Lupe (Baldini & Castoldi) di Flavia Perina, giornalista e blogger, seguitissisma sui social, un passato da ex militante nel Msi, due legislature da deputata, già alla guida del Secolo d’Italia, ex quotidiano di An.
E in questa ricerca di vendetta la madre mutilata nell’intimo diventa figura tragica, partecipe ed erede di quel principio materno studiato da un autore svizzero poco conosciuto (seguito dalla destra radicale e amato anche dalle femministe), Johann J. Bachofen, che elaborò in un’opera monumentale le categorie fondanti del matriarcato: “L’amore che lega la madre a quanto è nato dal suo corpo costituisce un punto luminoso della vita, l’unica chiarezza nella tenebra…”. Un poliziotto fatto di cocaina ha spento quel punto luminoso. Lei, la madre, compie il rito del riconoscimento all’obitorio, vede quel corpo rimpicciolito, senza energia, gli sembra un burattino rotto. Capisce che nulla sarà più come prima: si sfoga dapprima togliendo dalla cucina gli orpelli che danno identità alle mamme buone ed educate: i barattoli per le spezie, le anatre di ceramica che si affacciano dalle mensole. E va a sentire nella stanza del figlio la musica che sentiva lui, una musica ribelle che comincia a far scattare la voglia di reagire.
Così la prima lupa, la madre, va in cerca della seconda lupa, l’amica ex terrorista, quella che non può sottrarsi all’aiuto nel nome di quel patto cameratesco stretto quarant’anni prima, e che solo chi proviene dal ghetto conosce in tutta la sua profondità. Pedinano e spiano l’uomo, il nemico, l’omicida. Lo trovano grazie alla segnalazione di un poliziotto che non si adegua, di un poliziotto (come ce ne sono tanti) che non vuole rimorsi di coscienza. Lo seguono in un ristorante, lo osservano mangiare con sguaiatezza plebea, prendere i gamberoni dai piatti degli altri, fare battute a voce troppo alta, notano che si depila le sopracciglia e che si reca in bagno per sniffare. “Per questo buffone rumoroso non ho più mio figlio”, sentenzia la prima lupa e l’altra è con lei. Fino all’ultimo.
Tragedia, dolore, politica e anche spunti autobiografici: Le Lupe ci parla di tutto questo, ci interroga, ci sollecita, proprio come Flavia faceva in redazione quando leggeva certe notizie di cronaca e si chiedeva: “Non oso immaginare cosa farei se io fossi la madre”
C’è molto dolore, nel romanzo di Flavia Perina. Un dolore che sgorga tutto insieme e che era stato rimosso e soffocato. Perché nei giovani morti ammazzati e rimasti senza giustizia non si incrociano solo le storie di Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, casi di cronaca recente, che affiorano nella trama quando essa si fa atto di denuncia civile: “La verità non la saprai mai tutta intera”. Ci sono anche altre storie, che Flavia Perina conosce, altri morti, il cui ricordo è ancora impossibile in un Paese che fa fatica a conquistare una memoria condivisa, i loro visi stanno anche loro lì, nei lineamenti di quel figlio ammazzato: “Vede altri occhi lucenti e altri diciotto anni. Vede altri capelli che coprono la fronte. Vede altre facce morte”.
Flavia Perina conosce le madri dolenti degli anni Settanta, quelle che non hanno mai rivendicato e hanno solo pianto. Forse ha voluto scrivere anche per loro. Soprattutto ha voluto scrivere per se stessa, per la ragazza di venti anni che è stata, prendendosi anche una rivincita morale e politica su quella parte della destra che trova sempre doveroso schierarsi con le divise, col binomio legge e ordine, senza se e senza ma. Nella storia inventata dell’omicidio di Carlo, quella destra fa ancora capolino, quando il suo principale giornale titola “Tutelate quei poliziotti” e bolla come “campagna d’odio” la richiesta di giustizia degli amici del ragazzo morto. E si fa caricatura quando l’onorevole Fantini, uomo di destra, va in televisione a difendere ciò che non può essere difeso.
Tragedia, dolore, politica e anche spunti autobiografici: il romanzo Le Lupe ci parla di tutto questo, ci interroga, ci sollecita, proprio come Flavia faceva in redazione quando leggeva certe notizie di cronaca. “Non oso immaginare cosa farei io se fossi la madre”. Alla fine l’ha immaginato, e l’ha raccontato con temerarietà e senso di sfida. Perché? Perché forse nessun reduce dagli anni Settanta ancora ha dato una risposta alla domanda racchiusa nella strofa della canzone che, nel romanzo, gli amici dedicano a Carlo: “Signor capitano, qual è la rotta, qual è il destino del nostro viaggio…”. Ecco, qual è la rotta? Diventare lupe o diventare adulte.