La prima regola del Fight Club? Non si deve mai parlare del Fight Club. Tra le tante frasi culto di quel libro culto, scritto dall’autore culto Chuck Palahniuk e trasformato in un film culto dal regista culto David Fincher, questa è sicuramente quella che di più ha impestato le nostre vite negli ultimi vent’anni. Sì, tanti ne sono passati dalla pubblicazione del libro, un po’ meno — 17 — dall’uscita al cinema del film. Eppure, a distanza di una giovinezza, eccoci qui, di nuovo, a infrangere la regola. A parlare di Fight Club.
L’occasione? L’uscita sotto forma di fumetto, una linguaggio totalmente inedito per Palahniuk, del sequel: Fight Club 2, edito in italia da Bao Publishing, scritto e sceneggiato da Chuck Palahniuk e disegnato da Cameron Stewart. Una formula esplosiva, niente da dire: non capita mica tanto spesso che uno degli autori più idolatrati degli ultimi vent’anni e uno dei più grandi disegnatori al mondo incrocino le proprie rispettive creatività per dare vita al sequel di una delle narrazioni più allucinanti, cult e di successo dell’ultimo quarto di secolo.
Dopo vent’anni di attesa è chiaro che l’unica vera domanda a cui dobbiamo rispondere riguarda il determinare se è un’opera riuscita o se ha mandato tutto in vacca. Sembra facile, ma la risposta è un po’ più complicata di quanto ci si possa attendere. Perché delle due, ehm, due: ha mandato tutto in vacca e, contemporaneamente, proprio mandando tutto in vacca rende queste 270 pagine in carta plastificata a colori un fumetto riuscito, l’unico possibile sequel di un oggetto narrativo così pazzo come il primo Fight Club.
Per spiegare questo paradosso bisogna fare un passo indietro. Tornare al libro e al film del primo Fight Club. Tornare nella quella cantina buia e umida della taverna di Lou dove Jack e Tyler Durden organizzano il primo Fight Club. Ma tornarci in un momento preciso, quello in cui Jack distrugge di papagne la faccia di Angel Face — nel film il biondissimo Jared Leto — e, uscendo, dice a Tyler un’altra delle frasi memorabili del film: I felt like destroying something beautiful, che in italiano è diventata: Volevo distruggere qualcosa di bello.
Non è un caso. È uno dei punti più drammatici della storia. Jack sta iniziando a capire che le cose gli sono sfuggite di mano e che Tyler sta approfittando di lui. Nel film, l’opera è sfuggita al suo creatore. E l’unica cosa che può fare il creatore è cercare di distruggerla, in questo caso prendendosela con Angel Face, il preferito di Tyler, nonché uno dei migliori prodotti del Fight Club. Ecco, Fight Club 2 è esattamente questa cosa, soltanto che trasportata fuori dalla narrazione, nel mondo reale, che è poi quello di mister Palanhiuk.
Palanhiuk è come Jack Durden, è un creatore. Jack nella finzione ha creato Tyler, Chuck nella realtà ha creato il suo romanzo, Fight Club. Poi, che cosa è successo? Che entrambi hanno perso il controllo della propria creatura. Jack si rende conto di essere la causa di una potenziale guerra civile; Chuck di una cosa che assomiglia quasi a una religione: il mito di Fight Club.
L’unica cosa che può fare Chuck, come il suo alter ego Jack nella storia, è tornare al Fight Club e fare un gran casino, che per Jack vuol dire annientare di cazzotti il bel visino di Angel Face, ma per Chuck, che sta al di qua della pagina, significa fare a pezzi la sua creatura, oltraggiarla, tirargli talmente tanti cazzotti da perdere la lucidità in un boato di ossa che si spezzano e in una pozza di sangue che si allarga sul pavimento.
È una scena orribile? Sì. E infatti Fight Club 2 a tratti è proprio orribile. O anche peggio. È banale, grottesco, autocanzonatorio, narrativamente impazzito, con crateri nella sceneggiatura, con scelte metanarrative che a tutta prima fanno quasi ridere.
Quindi? È un fumetto brutto? No. È una caterva di pugni scagliata senza senso contro un oggetto narrativo che si chiamava Fight Club. È esattamente la messa in pratica (e in realtà) della volontà di distruggere qualcosa di bello che animava Jack in Fight Club.
C’è una sola differenza: rispetto ai pugni di Jack all’interno della finzione narrativa del primo Fight Club, questa volta è tutto vero. È Palanhiuk il protagonista di Fight Club 2, non Jack — che questa volta si chiama Sebastian. No, è proprio Chuck Palahniuk, che appare sia dentro la storia nei panni di se stesso, sia al di fuori della cornice narrativa, seminando pastiglie e capsule di psicofarmaci sulle pagine. Un Chuck Palahniuk che, come tutti i creatori quando di parla di opere d’arte, ha perso in partenza. Perché anche Fight Club, come ogni opera d’arte, ha vita propria, se ne fotte del suo autore.