Le barocche complessità di Giorgio Manganelli e il racconto nazionalpopolare alla “Linda e il brigadiere”. L’associazione che suona come un ossimoro si regge in equilibrio nella figura di Patrizia Carrano, che a uno dei più grandi e impervi scrittori del nostro Novecento ha dedicato un colto, divertente libro intitolato Un ossimoro in lambretta. Labirinti segreti di Giorgio Manganelli. Raccoglie i capitoli di un’amicizia tenuta senza alcuna tentazione di pettegolezzo sullo scrittore, “osservato – spiritosamente si legge – mentre non sta scrivendo alcune delle più importanti pagine del ‘900 letterario italiano”.
“La nostra frequentazione cominciò per caso: gli capitò di leggere un mio libro, ‘Baciami stupido‘, pamphlet sulla coppia spiritoso e catastrofico, che ottenne un bel successo con le sue 70 mila copie. Mi disse che lo divertì, temperandogli una giornata funestata dal mal di denti. La nostra amicizia nacque anche grazie a quel problema odontoiatrico”.
“Occhi piccoli e puntuti, nuca grassoccia come la cotenna di un verro, corporatura notarile, mani morbide, certi baffetti ispidi e topeschi che fanno il paio con la fronte ormai sguarnita”. Questo è il ritratto di Manganelli, che vive a Roma in un posto il cui indirizzo è una filastrocca, un non-sense alla Campanile: via Chinotto 8 interno 8. “Ho cercato di utilizzare un linguaggio che gli potesse piacere, di intonarmi alla materia. Non era facile accostarsi al suo ricordo, come non lo è accostarsi alla sua letteratura: spesso oscura, angosciata, manierista”, dice la Carrano del suo vecchio amico, privatamente chiamato “sarchiapone”, un animale solo verbale, una variazione fantastica di un armadillo o un formichiere, sospeso nella sua inesistenza tra “Lo Cunto” di Basile e un geniale siparietto di Walter Chiari: “Si divertì molto quando glielo dissi. Se nel sarchiapone non c’è tutto Manganelli, in Manganelli c’è tutto il sarchiapone”.
Di questo “costruttore ed esploratore di interi cataloghi di labirinti: topici, fognari, rocciosi, di ogni natura e misura, roventi o ghiacciati, ma tutti egualmente indecifrabili e irraccontabili”, Italo Calvino disse che era il più italiano – per quanto il più isolato – dei nostri scrittori, per la sua lingua che “nasce direttamente dal prosa del nostro secolo diciassettesimo, col suo sontuoso spettacolo fatto di sintassi elaborata. di nomi, verbi, l’arte di far sorgere dal pretesto più insignificante una fontana di zampilli verbali, un vortice di analogie, una cascata d’invenzioni esilaranti”. Prosa barocca, sofisticata, densa di ogni umore: da “Hilarotragoedia” ad “Angosce di stile”, da “Centuria” a “Improvvisi per macchina da scrivere”.
Se parlassimo di cinema, verrebbe fuori il nome di Federico Fellini, il più italiano – per quanto inimitabile – dei nostri registi. E infatti il maestro riminese della “Strada”, della “Dolce vita”, di “8½”, fa spesso capolino nelle pagine di “Un ossimoro”. I due si cercano, destinati a non incontrarsi mai, sperimentando l’uno con l’altro l’arte propria della fuga: “Forse era Fellini a essere più curioso di Manganelli, di cui leggeva tutto, fossero libri o articoli, di quanto Manganelli lo fosse di Fellini. Era Pietro Citati, che Fellini chiamava ‘il preside’, a essere convinto che i due dovessero incontrarsi: non accadde mai”, ricorda la Carrano, che fece più volte da cocchiere, con tanto di Fiat Cinquecento, per i due che non guidavano e che fra loro non si parlavano: “Automedonte occasionale del regista e dell’ossimoro, la Creatura diventa così un ufficiale di collegamento, una postina della Val Gardena, un Mercurio telefonico tra due meravigliosi intelletti, che si stimano, che si annusano, ma nei fatti non riescono a frequentarsi”. Fellini che manda i complimenti, Manganelli che si lamenta di essere stato riconosciuto in libreria dal regista ma non salutato.
Due uomini diversamente in fuga, con l’idiosincrasia per cerimoniali, celebrazioni, premi. Esemplare il ricordo di Fellini, premiato col Leone d’oro alla Carriera a Venezia: “Invece di partecipare al ricevimento, si chiude nell’appartamento al Grand Hotel invitando la sorella, la nipote e pochissimi amici a mangiare prosciutto con lo squacquerone: l’atmosfera è quella di una festicciola di provincia in onore di un nipote un po’ zuccone che è riuscito finalmente a diplomarsi”.
E’ difficile paragonare quella Roma all’odierna senza essere sopraffatti dalla tristezza: ormai la città è precipitata in uno stato di degrado assoluto. E parlo del clima culturale, come della vivibilità
Anche Manganelli fugge: “Le sue non sono fughe in avanti, ma piuttosto ripiegamenti, sparizioni, sottrazioni a situazioni per lui intollerabili. E la sua prosa barocca, ricca di volute, arabeschi, di controllatissime digressioni, di suggestioni lessicali e costruzioni funamboliche, al momento di descrivere certe sue fughe si fa scabra, icastica: la più violenta frattura della sua vita viene liquidata con quattro parole: ‘Sono scappato da Milano in lambretta’”. Ecco la lambretta del titolo: seicento e passa chilometri di statali e provinciali – l’Autostrada del Sole era vietata alle lambrette – , su un mezzo a lui così apparentemente poco congeniale, via dalla città natale, dopo aver anche mollato l’insegnamento universitario.
La direzione di quella fuga è Roma, dove ha sempre poi abitato, come anche il forestiero Fellini del resto. Una Roma che pulsa nelle pagine di “Un ossimoro” e su cui è d’obbligo una domanda all’autrice: “A me fa orrore la nostalgia, ma certo è difficile paragonare quella Roma all’odierna senza essere sopraffatti dalla tristezza: ormai la città è precipitata in uno stato di degrado assoluto. E parlo del clima culturale, come della vivibilità. Una città che non conosce più il silenzio né il buio, una specie di intestino crasso che raccoglie tutti i veleni e le feci del Paese”.
Della Carrano, che ha una lunga esperienza come giornalista (“Noidonne”, “Panorama”, “Tempo Illustrato”, “Amica”, “Max”, “Playboy” e altre testate ancora) e scrittrice (tra i suoi libri: “Malafemmina”, “Cattivi compleanni”, “Le armi e gli amori”; “Donna di spade”), è forse poco nota anche la scrittura di numerose fiction Rai di grande successo popolare: “Lina e il brigadiere”, “Butta la luna”, “La ragazza americana”. Racconta: “Ho sempre amato l’idea di sperimentarmi su versanti differenti. La tv è stato un campo non cercato, ma capitato per caso. Scrissi un libro, “La Magnani”, dedicato alla grande attrice.
Lo lesse Goffredo Lombardo, leggendario padrone della Titanus, che immaginava di volerne fare un film per la tv. Il progetto non andò in porto, soprattutto perché è impossibile trovare un’attrice oggi all’altezza della Magnani. In ogni caso, mi arrivò la proposta, e non ero convinta, così esposi il mio dubbio. Senza però sapere che a Lombardo, quasi offeso per quella specie di rifiuto, non era consentito dire di no: ‘Come si permette?’, anzi mi disse. La Titanus mi aprì così le porte del palco reale sulla scena del racconto nazionalpopolare. Che è un tipo di racconto, particolarmente complesso, su cui sarebbe difficile dilungarsi in un’intervista. Credo però che la nostra televisione possa sperimentare oltre i grandi scenari, e penso a Montalbano con le sue ambientazioni da Paese sublime, e oltre le storie edificanti”. E delle serie tv americane? “Non saprei rispondere, io seguo il cinema non la tv, credo che l’approccio cinematografico offra maggiori risorse di quello televisivo. Che dire? Ho visto ‘House of cards’, di cui parlavano tutti, e mi sono annoiata a morte a vedere tutti quei cattivi, solo cattivi, alle prese con un catalogo di nefandezze”.