Un piano sequenza che si avvicina a una montagna, a un baratro sul cui limite, a un passo dall’abisso, ci sono quattro persone. Sono minuscole in confronto all’immensa massa della montagna, osservano, macchine fotografiche alla mano, oltre le nuvole di fumo che hanno davanti. La colonna sonora che accompagna il movimento di macchina è un coro di monaci ucraini, si intitola Unfailing light ma, piano piano, mentre l’inquadratura si avvicina, mentre supera i turisti e oltrepassa l’abisso, un rombo sale e copre il canto. È un rombo primordiale, è la voce del vulcano, il cui occhio di fuoco è il soggetto dell’intero movimento.
Inizia così Into the Inferno, il nuovo documentario scritto e realizzato dal regista tedesco Werner Herzog e prodotto da Netflix, che lo ha pubblicato sulla propria piattaforma il 28 ottobre.
Non è la prima volta che Herzog si trova a tu per tu con vulcani, esplosioni e nuvole infuocate. Giusto 40 anni fa, a Guadalupe, aveva girato un documentario su una città che era stata quasi completamente evacuata proprio a causa del pericolo imminente di una eruzione catastrofica. Non accadde. Herzog tornò a casa sano e salvo, come anche i 75mila abitanti che lasciarono il paese. Tutti tranne uno, un contadino pazzo, o saggio, che aveva deciso che la fuga non gli apparteneva e che si addormentò sotto il vulcano rimettendo a lui il proprio destino.
Ecco, anche questa volta Herzog parte da un vulcano, e il contadino addormentato fa anche qui capolino, a dimostrare come il tedesco, seppur assolutamente ateo e razionalista, sia attratto più da quel qualcosa di magico e impalpabile che c’è nell’uomo piuttosto che dall’aspetto scientifico della storia. È la sua firma. Seppur si accompagni per tutto il film al vulcanologo Clive Oppenheimer, Herzog non è lì per spiegarci come funziona un vulcano. E non è certo un Troy McClure. Se nei primi trenta secondi ci ha preso per mano e ci accompagnato sull’orlo del vulcano è per farci osservare allo specchio l’essere umano, per farci godere della vertigine.
D’altronde, che cos’è un vulcano? È veramente l’inferno che il titolo suggerisce? No. Non lo è per niente. L’inferno è quello dei viventi, scriveva Calvino nelle sue Città invisibili, “è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Il vulcano è un ‘altra cosa e accompagnandoci insieme a Oppenheimer da un’isola dell’arcipelago di Vanatu, nell’Oceano Pacifico, all’Islanda, dalla Corea del Nord — a proposito, merita un inciso e un capello bassissimo il documentario dentro il documentario che Herzog riesce a fare dal paese più sconosciuto del pianeta — alla Rift Valley, in Africa, Herzog ci accompagna attraverso una galleria di culture che nel vulcano non vedono semplicemente un pericolo, ci vedono un motore.
Sì, un motore. Un motore che dà la vita e che se la prende, che crea plasmando tutto quel che abbiamo incontro, ma che con la stessa facilità lo spazza via, in pochi istanti. Qualcuno lo chiamerebbe un Dio, al singolare e con la maiuscola, ma definirlo tale è peccare in sottovalutazione. Credere che sia un dio sarebbe in effetti sminuente, ma soprattutto, sarebbe troppo facile, sarebbe tranquillizzante. Perché se fosse un dio avrebbe una volontà e se avesse una volontà potrebbe anche volerci bene, e decidere che siamo noi gli eletti, e salvarci. E invece no, un vulcano è indifferente. È questo che attanaglia. E con la sua indifferenza fa impallidire qualsiasi essere divino.
Esiste un libro, in Islanda, racconta Herzog, che contiene una profezia. Esiste in un solo esemplare, lo hanno riportato in Islanda dalla Danimarca, al cui re era stato donato, sulla nave più grande e possente, scortata da tutta la flotta danese. È un libro che tutte le ricchezze del mondo non possono comprare, racconta sempre il tedesco, è usurato e tarmato, e contiene una profezia, una specie di apocalisse. Ma è una apocalisse molto strana, perché non racconta la fine degli uomini, ma quella degli dei.
Letta dalla voce di di Werner Herzog, in un inglese indurito dal tedesco, è di una bellezza sconvolgente.
«Neath the sea the land sinketh, the sun dimmeth,
from the heaven fall the fair, bright stars;
gusheth forth steam and gutting fire
to very heaven soar the hurtling flames.
The fates I fathom yet farther
I see of the mighty gods the engulfing doom.
Comes the darksom dragon flying Nithhogg,
upward from the Nitha fells.
He bears in his pinions as the plains
he o’erflies, naked corpses, now he will sink».
Non sono gli unici, gli islandesi, che abitano in una terra che dai vulcani è nata e coi vulcani cambia forma di tanto in tanto, ad aver in testa questa immagine. Il vulcano dà, il vulcano prende. Lo sa anche il capo villaggio dell’Isola di Vanatu, un uomo che crede che il Vulcano gli parli e che è il custode di una cultura impregnata di pensiero magico. Un uomo che, quando racconta al vulcanologo Clive Oppenheimer il suo credo più profondo, usa queste parole, dette lentamente, in un inglese basico: «I believe that this vulcano will destroy this world someday».
Nella primavera del 1836, circa un anno prima di morire, Giacomo Leopardi scrisse la sua penultima poesia. È una canzone libera di sette strofe, si intitola La ginestra e fu ispirata dal periodo passato a Torre del Greco, nei pressi del Vesuvio. In particolare, la prima strofa si conclude con un monito. «A queste piagge», scrive Leopardi, «venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto è il gener nostro in cura all’amante natura». Ovvero, che gli ottimisti vengano qui, sulle pendici di questo vulcano per capire quanto ci vuole bene la natura. E continua: «E la possanza qui con giusta misura anco estimar potrà dell’uman seme, cui la dura nutrice, ov’ei men teme, con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto. Dipinte in queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive». Ovvero, quassù sì che la potrà capre al volo l’esatta dimensione della nostra onnipotenza, talmente invincibile che la Natura, con un semplice scrollare di spalle, può cancellarla in un attimo. Per sempre.
È sue queste pendici, conclude Leopardi, che come uno specchio possiamo capire quanto è misero il nostro convincerci di avere un destino grandioso. Oggi questa strofa andrebbe letta a Elon Musk. Perché il futuro dell’umanità non è nella polvere delle stelle, è nella polvere delle pendici di Vulcano. Da dove veniamo e dove, quando il Pianeta che stiamo maltrattando farà una scoreggia più forte del solito, torneremo.