Moda copiona: perché riprodurre gli stili del passato non è più un tabù

Nella moda l’unica via di uscita per essere unici è copiare meglio degli altri. E sembra che nessuna casa di moda sfugga alla regola. Andare a una sfilata ormai è come entrare in una macchina del tempo

Quasi tutti gli amanti della serialità televisiva, quelli che hanno fatto di Netflix la propria settimanale fonte di gioia o di sospensione dalla realtà, a Luglio scorso sono stati travolti dall’inaspettato successo di Stranger Things, serie horror ambientata negli anni Ottanta che ha riportato agli onori della cronaca Winona Ryder e con lei un immaginario che pensavamo perduto per sempre.

Stranger Things è infatti, per ammissione dei registi Matt e Ross Duffer, un’operazione di composizione estetica e narrativa i cui contenuti vengono da film come E.T., Stand by Me, I Goonies, Nightmare o La Cosa. È in sostanza un progetto completamente derivativo o, per usare una parola più comprensibile, rètro. Nel vederlo si è assaliti da una strana sensazione di dèja vu che all’inizio è indefinibile e con lo scorrere delle puntate diventa un gioco al riconoscere le citazioni cinematografiche.

Riedizione, riproposizione, remake, rètro o vintage sono parole che hanno lo stesso significato e che in questi ultimi anni sono diventati una parte fondamentale dello storytelling non solo cinematografico. La moda, che è stata la prima a nutrirsi di passato senza troppe necessità di nasconderlo, ha scatenato una reazione a catena che sta colpendo ogni forma di espressione visiva senza peraltro, come sempre, intestarsene la creazione. Vestirsi con abiti usati è un atto riconosciuto e apprezzato fin dagli inizi del secolo, una modalità espressiva che fa parte in maniera profonda di quelle che, in segno di disprezzo, vengono chiamate arti decorative, la moda e l’arredamento, ma non è più ritenuto un vero atto creativo almeno dagli anni Settanta.

Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, uno dei marchi più lucrativi al mondo, ha per primo reso nuovamente cool questo meccanismo facendolo arrivare alla sterminata platea di compratori dello storico marchio fiorentino. Guardare una collezione di Gucci oggi è come salire dentro una macchina del tempo che si muove a singhiozzo e che ci porta in maniera apparentemente casuale dagli anni Settanta agli anni Ottanta, dal Rinascimento alla Restaurazione. L’estetica di Gucci non ha nessun sincronismo rispetto alla contemporaneità e, come Stranger Things, riesce ad abbattere le barriere dell’accettabilità pompando dentro lo sfocato immaginario della moda attuale tonnellate di riferimenti storici ultra noti che hanno un piacevole effetto ipnotico e che ci permettono di rimanere sulla superficie delle cose senza costringerci a trovare significati profondi a ciò che stiamo vedendo. O indossando.

Il designer di origine georgiane Demna Gvasalia, che per i modaioli più incalliti è una specie di dio vivente, ha preso da poco le redini di Balenciaga, marchio fondato nel 1937 da Christobal Balenciaga e per lungo tempo simbolo di un lusso inarrivabile. Demna lavora sulla sistematica riproposizione del lavoro di un altro designer mitologico, questa volta proveniente dagli anni Novanta: Martin Margiela. L’estetica del brutto, del recuperato e del non finito tipica del più invisibile di tutti gli stilisti non è solo un riferimento vago nelle collezioni di Balenciaga o nel marchio di famiglia dei fratelli Gvasalia che si chiama semplicemente Vetements. È una copia a volte talmente vicina all’originale da lasciare interdetti, a volte preoccupati, spesso arrabbiati.

La vicinanza temporale tra copia e originale rende l’operazione ancora più interessante. O inquietante.

Nell’era della copia (pensate a H&M e Zara) a cui nessun marchio riesce a sfuggire, l’unica risposta possibile per mantenere unicità e riconoscibilità è adottare lo stesso principio elevandolo

Riproporre con esattezza millimetrica qualcosa che è già stato fatto potrebbe sembrare un atto dadaista ma in realtà racconta molte cose del momento storico che stiamo vivendo. In “À rèbours”, fondamentale inno all’estetica in sè di Huysmans, il protagonista Des Esseintes si costruisce un rifugio in tutto uguale a una residenza di campagna del Settecento per fuggire alla tristezza puritana dell’età vittoriana. Un atto così apparentemente reazionario contiene in realtà i germi di una rivoluzione culturale che colpirà per primo Oscar Wilde e poi il resto della letteratura europea.

Ci troviamo in un momento in cui la narrazione della realtà è spesso violenta perché la realtà è spesso violenta. Nel cinema il documentario è diventata una forma espressiva non più di nicchia ma da largo pubblico. Nella moda esiste ugualmente un approccio iper realistico all’abbigliamento che viene direttamente dall’osservazione della strada e che ha uno spirito punk di ascendenza anglosassone (gli addetti ai lavori conoscono bene marchi come HBA, KTZ, Kochè o Eckhaus Latta) e parallelamente molti designer che come Alessandro Michele o Demna Gvasalia lavorano solo sul passato. La modalità della riproduzione, come in Stranger Things, è diventata in poco tempo non solo culturalmente accettabile ma anche di sicuro successo commerciale.

Nell’era della copia (pensate a H&M e Zara) a cui nessun marchio riesce a sfuggire, l’unica risposta possibile per mantenere unicità e riconoscibilità è adottare lo stesso principio elevandolo. Ogni tentativo di generare nuove estetiche viene masticato dai marchi del fast fashion così velocemente da arrivare nei negozi prima dell’originale. Ma l’atto del copiare in sé è di più difficile riproduzione, soprattutto perché, come nei casi di cui abbiamo parlato, ha un approccio fortemente intellettuale. Quello che una volta si chiamava creatore sta diventando sempre più velocemente un curatore che riunisce, senza cambiarle, cose che già esistono.

Maria Grazia Chiuri, novella direttrice creativa di Christian Dior, ha così commentato la sua prima collezione per uno dei marchi più importanti della storia della moda: “Io non faccio la stilista. Sono una curatrice. Dior è stato disegnato da Christian Dior solo per dieci anni. A lui sono succeduti geni come Gianfranco Ferrè, John Galliano o Raf Simons. Io prendo i segni di tutti loro e con quelli creo qualcosa di nuovo”.