In un Paese che ha conosciuto mezzo secolo di Democrazia Cristiana, è difficile farsi sorprendere da una parola che ricorre spesso nel dizionario politico nazionale: correnti. Ma forse era inaspettato che a riportarla alla mente con così grande frequenza sia stata l’esperienza del partito che più è lontano da quella della vecchia balena bianca: il Movimento 5 Stelle.
Beninteso, i grillini sono una storia a sé, non fosse per il fatto che finora a governare l’Italia sono stati gli altri. Le correnti sono però un frutto avvelenato che rischia di crescere a dismisura anche sull’albero a cinque stelle, almeno finché la creatura politica di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio (ora sostituito dal figlio Davide) non si sarà data una organizzazione consona alle aspirazioni di guidare il Governo. Non c’è solo la difficoltà di entrare nella parte di sindaco dimostrata da Virginia Raggi (e compagnia) a Roma, dove già il consenso popolare non è garanzia di benevolenza da parte dei troppi interessi contrapposti che si incrociano nella Capitale. In queste settimane altri due elementi si sono incaricati di indicare, a monte, l’urgenza di governare le troppe anime del Movimento, ancora prima che il Paese. Il primo elemento è il ritorno alla leadership piena di Grillo, che alla festa di Palermo ha dovuto rimettersi in gioco per sopperire alla debolezza del direttorio M5S formato dalle giovani leve nate (politicamente) con le elezioni del 2013: Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Roberto Fico, Carla Ruocco, Carlo Sibilia.
Come nella vecchia di Dc, un partito che pesca a destra, al centro e a sinistra comporta molte contraddizioni interne e, insieme, variegate aspettative da nord a sud. Ogni territorio ha i suoi capetti. E ogni territorio ha la sua base ideologica ereditaria
Il secondo elemento è lo strappo consumato da Federico Pizzarotti, il sindaco di Parma che era stato fra i primi volti di governo a cinque stelle e che ora denuncia un partito in mano agli “arrivisti”: «Sono sempre stato un uomo libero, da uomo libero non posso che uscire da questo Movimento 5 Stelle, da quello che è diventato oggi e che non è più quello che era quando è nato».
Il ritorno di Grillo e l’uscita di Pizzarotti indicano che senza figure di garanzia la galassia 5 Stelle rischia l’implosione. Non ci sono opposizioni vere al capo carismatico, perché tutti in un modo o nell’altro si richiamano alla purezza del progetto originario: dare ai cittadini le chiavi del Palazzo. Tutti sono grillini. Ma sotto il capo carismatico si è consolidata la divisione fra gli idealisti alla Roberto Fico – che non vedono alternativa a una non-organizzazione che lascia liberi di fare politica proprio alla maniera delle origini pur mettendosi così sulla strada dell’eterna opposizione – e i pragmatici. Questi ultimi sono quelli più ingombranti, quelli che lavorano per diventare governativi: Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista su tutti. L’uno probabile candidato premier, l’altro candidato a rimanere il volto dell’ala movimentista.
Le correnti sono però un frutto avvelenato che rischia di crescere a dismisura anche sull’albero a cinque stelle, almeno finché la creatura politica di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio (ora sostituito dal figlio Davide) non si sarà data una organizzazione consona alle aspirazioni di guidare il Governo
Le correnti grilline possono però essere tante quanto sono le ramificazioni territoriali che la partecipazione alle elezioni ha consolidato. Come nella vecchia di Dc, un partito che pesca a destra, al centro e a sinistra comporta molte contraddizioni interne e, insieme, variegate aspettative da nord a sud. Ogni territorio ha i suoi capetti. E ogni territorio ha appunto la sua base ideologica ereditaria. Se si parla per esempio di attivisti grillini a Milano (non gli elettori, ma le donne e gli uomini del movimento), si parla di un’area più progressista, più spostata a sinistra. A Torino Chiara Appendino è invece diventata sindaco battendo la sinistra, riuscendo a convincere anche l’establishment cittadino più moderato.
Ma è a Roma, la città dove passano i sogni di governo dei grillini, che più forte è emersa l’anima correntizia del movimento, a cui sono affluiti molti consensi anche da destra. L’amministrazione della Capitale è il banco di prova delle capacità di gestire la cosa pubblica da parte dei cinque stelle. Dai successi della sindaca Raggi dipendono dunque inevitabilmente le aspirazioni di Grillo e seguaci. Teoricamente, sarebbe abbastanza questo per mettere da parte diversità e incomprensioni e remare tutti nella stessa direzione. E invece proprio all’ombra del Campidoglio è deflagrata più forte la lotta tra le diverse anime. Da una parte proprio la sindaca, spalleggiata dal vice Daniele Frongia. Dall’altra la deputata Roberta Lombardi, prima capogruppo a Montecitorio e personaggio di riferimento dei grillini romani. E con lei il presidente dell’aula Giulio Cesare, Marcello De Vito, che un anno fa aveva sfidato la Raggi per conquistare la candidatura a primo cittadino.
Un conflitto capitale, neanche troppo nascosto, che a pochi mesi dalle amministrative ha finito per rallentare a dismisura l’azione della sindaca. Spingendo alle dimissioni, tanto per dirne una, l’assessore al Bilancio Marcello Minenna. L’insieme di tutte queste anime è anche uno dei segreti del successo pentastellato, armata anti-sistema di un esercito post-ideologico. Ma senza la tutela di Grillo, ogni battaglione rischia di combattere per sé.