Fino agli anni Novanta, la Divina Commedia di Dante era relegata ai banchi si scuola, alle parafrasi di Natalino Sapegno, alla analisi di Eric Auerbach o di Gianfranco Contini. Chiusa in ore tristi e noiose da cui era molto difficile, per generazioni di studenti, uscire con la consapevolezza che quella maestosa opera in terza rima era in realtà il primo grande romanzo della nostra letteratura.
Ma dove stava fallendo miseramente l’Accademia e il liceo, riuscì un attore. E no, non si tratta di Roberto Benigni. Il suo nome era Vittorio Sermonti. Fu proprio lui, scomparso oggi all’età di 87 anni, a soffiare via la polvere da quel grandioso monumento alla lingua italiana riportando la Commedia tra la gente, leggendola alla radio, divulgandola come nessuno aveva mai fatto, almeno in epoca moderna.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, anni in cui Benigni faceva ancora il toscano verace e portava le parolacce e l’anticlericalismo al cinema, Sermonti scrisse tre grandi commenti dedicati alle tre cantiche della Commedia e curò un ciclo di trasmissioni alla radio. Non fece tutto da solo, ad aiutarlo fu proprio Natalino Sapegno, massimo esperto italiano di Dante nonché professore che lo aveva apprezzato all’Università, quando nel 1963, a 35 anni, Sermonti discusse la sua tesi.
Oggi è morto un grande intellettuale italiano. Perché questo era Vittorio Sermonti, uno di quelli – e sono la migliore specie – che non hanno paura di andare a prendere in cantina i cimeli di famiglia, né di mettersi a ripulirli dalla polvere per riportarli alla nostra attenzione come nuovi. Questo ha fatto Sermonti con la Divina Commedia, e lo ha fatto ben prima di Benigni, dedicando 20 anni della sua vita a leggerla, commentarla e portarla in giro per il mondo.
Questo è il V Canto dell’Inferno, uno dei più celebri, quello di Paolo e Francesca, letto da Vittorio Sermonti:
Questo, invece, è lo stesso canto recitato da Benigni. Giudicate voi.