Arte contemporanea? A Donald Trump piace farla a pezzi

Il magnate americano non nutre grande passione per le opere artistiche. Quando dovette costruire la sua Trump Tower demolì un edificio liberty del 1929, mandando in frantumi alcune statue pregiate e provocando i pianti dei musei di New York

Ha vinto Donald Trump, anche il mondo dell’arte trema. A prima vista, non potrebbero esistere due mondi più distanti. Il neo-presidente americano nella sua campagna elettorale non ha mai dedicato un minuto dei suoi discorsi e dei suoi tweet al mondo dell’arte (la Clinton invece ne aveva parlato, con la visione banale del “volano dell’economia”). Risulta difficile capire cosa ne pensi o come intenda comportarsi di fronte all’intero settore, a meno che – come fa questo articolo di Mother Jones uscito nello scorso luglio, quando la vittoria di The Donald sembrava impossibile più o meno come quella dell’Italia del rugby contro gli All Blacks – non si vada a vedere ciò che Trump faceva prima di candidarsi alla presidenza degli Usa (e vincere).

L’episodio è emblematico. Risale ai tempi dell’edificazione della ormai mitologica Trump Tower, a New York. Per costruirla The Donald dovette liberare lo spazio occupato da una palazzina liberty del 1929, il Bonwit Teller Building. Era un edificio particolare, uno degli ultimi del genere rimasti in circolazione. In più, sulla sua facciata erano presenti alcuni fregi unici, simbolo del liberty newyorchese (sconosciuto ai più) che avevano un valore artistico elevato. Insomma, se Trump nutre una particolare sensibilità per l’arte lo si vede qui. Ecco, la risposta è semplice e immediata: no.

Trump si era accordato con il Metropolitan Museum per donare le sculture di art déco della facciata, rimuovendole con attenzione prima della demolizione. Purtroppo, però, l’operazione era piuttosto delicata e richiedeva almeno due settimane. Troppo tempo. Era necessario agire con più velocità, e allora ordinò agli operai di lavorare sulle sculture con il martello pneumatico. Risultato: si staccarono, caddero a terra e andarono in mille pezzi. Il giovane miliardario fece spallucce, Ashton Hawkins, vice presidente del Met, commentò: “Pezzi di questa qualità sono rari, sarebbero stati bene nelle nostre collezioni”. E il mondo dell’arte gridò di dolore.

Trump rispose con uno dei suoi alter ego, John Baron, per dire che, in realtà, quelle statue non valevano i 32mila dollari necessari per salvarle. Anche qui, il mondo dell’arte replic indignato: “Figurarsi se i musei avrebbero accettato quei pezzi, se non avessero avuto valore”. Il dibattito continuò, ma la realtà è che i pezzi erano ormai perduti.

In ogni caso, l’atteggiamento di The Donald ricalca proprio il modello che ci si aspetta da lui: quello del capitalista poco interessato alle bellezze dell’arte, anzi spazientito dalle pedanterie di esperti e critici, se non ci sono di mezzo soldi e metodi per fare guadagni ulteriori. Con l’arte, insomma, non si mangia. Lo si diceva anche in Italia, qualche anno fa: inutile stupirsi che lo pensino anche oltreoceano.

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