Se pensi a una tipicità o a una stranezza, una norma o una variazione, una tradizione o un’innovazione linguistica, una retorica o un’antiretorica, stai sicuro che Tullio De Mauro ci ha già pensato. È già stato lì. Ma attenzione, il De Mauro glottologo, quello dell’ introduzione al Corso di linguistica generale di De Saussure, il lettore di studi disparati sul darsi e il farsi del linguaggio, anche più polverizzato e magnetofonico, è tutt’altro che un (pur titanico) collezionista di oggetti culturali.
È un analista: da intellettuale di sinistra De Mauro (classe 1932) ha lavorato cercando un filo di coerenza nei fatti e nella logica della lingua, che è logica politica, anche. Dal suo ruolo come ministro della Pubblica istruzione (nel 2000, al Governo c’era Giuliano Amato), a quello eminente nella linguistica italiana il suo lavoro di mappatura e storicizzazione ha toccato in molti casi l’attualità, ma lui è e resta, alla fine, un umanista.
Nella possibile e ventilata scelta di mettere da parte il rapporto con la classicità gli occidentali sono isolati. Dall’India al Giappone le proprie lingue antiche si studiano, fin dalle elementari
Per cui, incontrandolo nella sua casa romana gli si domanda per prima cosa della questione carsica, immancabile, ma forse un po’ più rilevante del Nobel al menestrello di Duluth: quella dell’importanza delle lingue classiche. Per un intero mondo culturale, ormai, studiare il latino a scuola è una stranezza che confina col bizzarro. «Ci sono vari motivi per spiegare l’utlità della memoria del mondo classico, invece» racconta De Mauro «Cerco di attenermi ai fatti meno controvertibili. Uno: in diverse aree del mondo -in Giappone, in Cina, nei paesi arabi, in Israele, in India- il rapporto con la fase classica è un rapporto intenso e attivo. Che si consolida attraverso l’apprendimento fin dalle scuole primarie».
Non esattamente posti arretrati…
Sono gigantesche potenze economiche e culturali. E prestano grande attenzione al loro retaggio classico, che invece, in larga parte degli stati occidentali, si ritiene di poter eliminare. Il caso indiano è interessante perché, dopo che i protettori inglesi lasciarono la zona, la lingua classica dell’India, il sanscrito, era stato messo da parte. E invece negli ultimi decenni è ritornato di forza, fin dalle elementari, in vaste aree del paese. Nella possibile e ventilata scelta di mettere da parte il rapporto con la classicità siamo dunque isolati.
Altri motivi per non dimenticare il latino?
I lessici di diverse lingue europee -faccio due esempi volutamente molto distanti tra di loro- come l’Italiano e l’Inglese sono in larga parte di formazione latina. Il motivo per cui in Italia, dove la latinità del vocabolario è molto presente e ovvia, vengono accolti molti anglismi -con alti lai dei puristi- è che molti di questi anglismi sono in realtà latinismi. Bruno Migliorini li chiamava “cavalli di ritorno”. “Obsoleto” è una parola inglese che ci arriva dal latino, e che torna. James Dee ha fatto conteggi molto pazienti sulle parole di origine latina che hanno stravolto la fisionomia germanica dell’inglese, e ha detto scherzando: bisognerebbe proclamare l’inglese lingua neolatina onoraria, perché non lo è geneticamente, ma lo è diventata.
Quindi, se ha un qualche valore la trasparenza delle parole che adoperiamo, questa ci è garantita da un buon rapporto con la latinità classica.Il famoso esempio di Alfonso Traina: diceva che se non conosco il verbo latino “fleo” non capirò mai bene, né sarò mai in grado di usare, la parola “flebile”.
E via seguitando. Questi sono i due dati per dire che mi pare un danno secco buttare via la tradizione classica, per l’Italia e per i paesi occidentali. Poi ci sono altri fattori, non c’è dubbio.
Quali ad esempio?
C’era un vecchio libro di Alvin Toffler che diceva: gli effetti delle lingue del Peloponneso si colgono nell’America meridionale oggi. L’ansia democratica non sopprimibile, come è emersa nei i combattimenti alle dittature sudamericane, è un qualcosa che continua a dare i suoi effetti anche nella contemporaneità. Pur essendo nata in Grecia.
Tutto l’aspetto della trasmissione di scintille creative tra l’antico e il moderno è la vera sorpresa. Quali sono i suoi classici? Cosa legge? Ma soprattutto cosa rilegge?
Occupandomi da cinque anni del premio Strega come presidente della fondazione Bellonci il mio tempo di lettura è diventato molto limitato, perché devo dedicarmi a molta narrativa contemporanea italiana. Spero di liberarmi dello Strega presto. Sarebbe il caso di passare la mano ad altri. Mi dà soddisfazione di aver inaugurato lo Strega giovani, che ha avuto molto successo.
Spero di liberarmi dello Strega presto. Sarebbe il caso di passare la mano ad altri
Del resto quello dell’editoria per ragazzi è un segmento di mercato vitale. Ma ora che vuole lasciare può dircelo, fuori dai denti, e in camera caritatis: i premi servono o non servono?
Credo che servano a far comprare e leggere il libro vincitore: è già una piccolissima cosa. Poi lo Strega parlare per mesi di libri in uscita. Nell’insieme non mi pare affatto qualcosa di negativo.
Dica la verità: l’ha letto tutto Albinati?
Dico la verità. Sì. Ho letto a salti l’ultimo capitolone de La scuola cattolica, che del resto è quello più divertente, in cui si parla di modi di dire: perché è un po’ roba mia, e l’ho lasciato un po’ perdere. Ma il resto l’ho letto e l’ho trovato abbastanza interessante.
E di classico cosa legge?
Molti testi greci. Molto Aristotele, Platone, e poi Lucrezio e alcuni testi letterari. I tragici. Sofocle, abbastanza. I lirici greci. Non ho più tempo per letture senza freni di classici. Ho difficoltà anche a leggere ad esempio la letteratura contemporanea degli altri paesi. Ogni tanto mi capita qualcosa. Di indiano. Di Persiano.
Un accadimento clamoroso provoca 24/48 ore dopo sui social network un’ondata di violenza verbale a sostegno di quel fatto. Un fatto determina parole di rinforzo del fatto
Cambiamo argomento. Lei fa parte della commissione sull’intolleranza istituita dalla presidente della Camera Laura Boldrini.
Sì. La commissione si occuperà in larga misura di una sorta di “missione impossibile”: se e come mettere freno all’intolleranza che si manifesta nel linguaggio.
Una domanda provocatoria: tutto il fenomeno del linguisticamente corretto non parte dalla presupposizione molto ingenua (e quindi politicamente manipolabile) che cambiando le parole si possano cambiare anche le cose?
Non c’è dubbio
Non si appiattiscono i fatti al linguaggio, come se esso non potesse avere un grado di eccentricità rispetto al reale (fatta di ironia, di distanza formale, di retorica)? Un insulto su facebook non è una violenza fattuale…
In una certa misura un insulto è una violenza.
Ma scrivere su Facebook “ti taglio le gomme della macchina” non equivale a tagliare le gomme della macchina, per fortuna.
Senz’altro. A questo proposito c’è un fatto interessante. In base a dei dati che stiamo vagliando con la commissione, c’è una curiosa commistione tra fatti e parole a rovescio. Un accadimento clamoroso provoca 24/48 ore dopo sui social network un’ondata di violenza verbale a sostegno di quel fatto. Un fatto determina parole di rinforzo. Senza per questo confondere il “ti taglio le gomme” con il tagliare veramente le gomme. Non credo che questo basti a sanare diseguaglianze e violenze che circolano. Ma ci sono delle cose che il buon senso suggerisce.
Cosa?
Quando abbiamo iniziato a dire “ministra” e “sindaca” molti hanno sobbalzato. Ma le donne ministro o sindaco non c’erano mai state. Nato il ruolo è giusto che il vocabolario si adegui. La lingua ci autorizza a usare i femminili. Usiamo i femminili, con qualche attenzione.
Sane rotture delle abitudini linguistiche?
Tra le mie numerose colpe c’è quella di avere partecipato alle elezioni del consiglio regionale nel Lazio del 1975, per il Partito Comunista. Avevo accettato la candidatura, e ricordo che sono stato buttato a Velletri, con un grande personaggio che era Umberto Terracini. Cominciai a parlare, morto di paura (non ero abituato). Non sapendo cosa dire iniziai: “cittadine e cittadini, compagne e compagni”. Terracini dopo mi disse “mi è piaciuto molto come hai cominciato. Così voglio dire anche io”. Anche lui cominciò: “compagne e compagni”. Se si guardano i discorsi di Enrico Berlinguer bisogna arrivare al congresso di Roma del ’77 o del ’78 per trovare questa formula. Quindi le abitudini linguistiche cambiano, col tempo.
Ha avuto incarichi importanti, è stato anche ministro. Quali sono stati i politici che hanno avuto sensibilità per il tema scolastico?
Uno dei più attenti è stato Giuliano Amato, attento alle dimensioni della cultura, della scolarità e dell’istruzione. Poi Mattarella, che portava la sua antica esperienza di bravo ministro della Pubblica Istruzione. Aveva proposto all’epoca una ristrutturazione della scuola molto interessante, e si era occupato molto prima che diventasse un’emergenza, dell’accoglienza ai migranti. Anche Pierluigi Bersani, che quando ero ministro si rubava tutte le mie carte, se le studiava di nascosto e poi mi chiedeva cose. Poi Agazio Loiero. Non le donne ministro. Non ne ricordo di particolarmente attente ai temi scolastici.
Politici con attenzione ai temi dell’istruzione e cultura? Non le donne ministro con cui ho lavorato. Non ne ricordo di particolarmente attente ai temi scolastici
E gli insensibili?
Tutti. Tutti gli altri. Anche se quando andavo in Parlamento a relazionare di sistema scolastico erano tutti in genere molto attenti. Anche se non si trattava di politici di vertice.
Ha detto che la scuola secondaria è stata distrutta
Non è stata costruita, meglio. O meglio ancora: si è autodistrutta, non ha retto al cambiamento radicale del suo “pubblico”, degli studenti. Pensi che nel 1950 l’intera scuola post-elementare -media, ginnasio/liceo, scuole d’avviamento, scuole tecniche- era frequentata dal dieci per cento delle leve anagrafiche. Un’élite. Ora è semplicemente tutto cambiato. Ora c’è la scuola dei paesi democratici.
La scuola dei paesi democratici, giusto. Ma come si fa a conciliare con la ricerca di eccellenze? Come si fa a non abbassare il livello?
Si segue l’esempio di giapponesi, coreani, finlandesi, olandesi. Hanno sistemi scolastici che ottengono il massimo dell’inclusione, portano il cento per cento degli studenti al diploma secondario superiore, con i livelli più alti di prestazioni nel mondo. I quattro sistemi che hanno i migliori risultati secondo i test comparativi internazionali sono i quattro sistemi più inclusivi, che riescono a portare tutti al diploma. Conciliare inclusione e risultati è possibile. Non si possono coltivare le eccellenze per mettere una toppa al fatto che si lasciano fuori i meno dotati.
Giapponesi, coreani, finlandesi, olandesi. Hanno sistemi scolastici che ottengono il massimo dell’inclusione, portano il cento per cento degli studenti al diploma secondario superiore, con i livelli più alti di prestazioni nel mondo. I quattro sistemi che hanno i migliori risultati secondo i test comparativi internazionali sono i quattro sistemi più inclusivi
Cosa serve per questo?
Un Governo che metta al primo posto la scuola. Non solo in termini di danaro -il danaro alla fine conta poco- ma in termini di cura, di attenzione. E poi serve un gran lavoro degli insegnanti, che senza essere santi ed eroi come Mario Lodi o Don Milani, devono fare in modo che gli alunni più bravi servano da sostegno e indirizzo ai meno fortunati.
Ecco, gli insegnanti. Non trova che ultimamente siano sempre più trasformati in burocrati, alle prese con schede di valutazione, programmi, moduli da riempire ecc ecc?
Sono per un tipo di scuola per cui il controllo degli insegnanti semmai è un controllo finale. Il metodo sta al professore. Se vado al Liceo Giulio Cesare di Roma userò un metodo, se vado allo Zen di Palermo le mie modalità operative saranno diverse.
D’altra parte, come mi raccontava uno studente delle superiori, c’è il fenomeno di chi non ha lingua. Per esempio figli di immigrati che, essendo nati in Italia, non conoscono bene la lingua del paese d’origine, ma non hanno imparato l’italiano. Quasi dei fantasmi linguistici.
Su questo punto ho fatto una relazione a un congresso di linguistica nel 1972 a Bologna. Allora sono stato sfottuto da molti mei colleghi. Il fenomeno allora era chiaro per quanto riguardava l’emigrazione italiana e turca in Germania. I colleghi mi prendevano in giro dicendo che avevo inventato il fenomeno dell'”homo alalus”. Be’ c’erano gli homines alali in Germania, e cominciava a profilarsi il fenomeno in Italia, dove anche giocava la repressione del dialetto un po’ violenta alle scuole elementari, quasi vietato dalle famiglie, ma loro sapevano solo il dialetto. Il fenomeno si ripropone, naturalmente, con l’arrivo di migranti che abitano stabilmente in Italia.
Come si supera il problema?
Col rafforzamento delle lingue d’origine, innanzitutto
Intende che i migranti dovrebbero andare a scuola della propria lingua e non di quella del paese in cui pervengono?
Certamente. Abbiamo molte evidenze scientifiche che per parlare bene la lingua del paese in cui si sta è necessario conoscere le radici linguistiche e culturali del posto da cui si proviene.