Presto ci sarà una nuova crisi. L’eurozona rischia di collassare davvero, e la sua divisione in due o tre parti è quasi un destino. Sono le previsioni di John Plender, giornalista ed editorialista del Financial Times, in Italia per la promozione del suo libro La verità sul capitalismo (Bollati Boringhieri), presentato nel ciclo di incontri di Bookcity insieme al giornalista del Corriere della Sera Danilo Taino e Giordano Martinelli, vice presidente di AcomeA sgr, partner della conferenza.
Il suo pensiero muove da una lunga analisi dei fatti storici del capitalismo, dal suo lavoro di editorialista e da quello di consulente a capo dell’Omfif (Official Monetary and Financial Institution Forum). Raccoglie informazioni sulle direzioni dei mercati, le legge in filigrana e avanza critiche severe. Il sistema, spiega, non ha saputo riformarsi abbastanza dopo la crisi del 2008. E per “riforma” si intende l’inserimento e l’applicazione di regolamenti più rigidi ed efficaci, in grado davvero di limitare il potere speculativo delle banche. Può sembrare che più libertà generi più ricchezza, ma in realtà si rende più vulnerabile il sistema economico. Stando così le cose, c’è da aspettarsi una nuova crisi.
Al centro delle polemiche degli ultimi anni si sono imposti due grandi protagonisti: la globalizzazione e il neoliberismo. Anche lei è tra i critici.
Sì. Il neoliberismo, come scrivo nel mio libro, inteso come il sistema pionieristico e innovativo attuato dalla fine degli anni ’70 in poi mostra le corde. Chiariamoci: le novità introdotte da Ronald Reagan e da Margareth Thatcher negli Usa e in Gran Bretagna, all’epoca, erano indispensabili: serviva più libertà nel commercio, negli scambi, nelle regole. Il comparto economico aveva bisogno di uno shock, ed è stato senza dubbio un beneficio.
Ora però le cose sono diverse.
Adesso il quadro è cambiato: è stata sovrastimata la capacità della globalizzazione di portare benefici ai Paesi più sviluppati, e molte persone si sono trovate in difficoltà nel momento in cui hanno dovuto affrontare tutti i traumi che ne sono derivati.
In particolare?
Si è rotto il collegamento, fino a quel momento vero, tra produttività e guadagni. Più e meglio si produceva e più aumentavano i salari. Con la globalizzazione non è più così.
E questo è la ragione alla base delle reazioni rabbiose che si sono manifestate nelle elezioni americane e con la Brexit.
Esatto. Senza contare che l’iper-finanziarizzazione ha avuto dei vantaggi ma anche dei costi molto alti.
La previsione è che, a lungo andare, l’eurozona dovrà rompersi. Non è chiaro in quante parti. Forse due, con la divisione tra Paesi del nord e Paesi del Sud. Forse in tre: Paesi del Nord, Francia e Italia-Spagna
Quali costi?
Il senso della finanza è l’investimento dello sviluppo. Con la finanza degli algoritmi, delle dinamiche speculative a breve termine è venuto meno ogni tipo di utilità sociale. Tutta l’economia è condizionata da questa visione, cioè dai criteri ristretti della finanza. Facciamo un esempio.Ecco.
Tutti sono scandalizzati dagli alti stipendi dei Ceo. Eppure non sono regalati: sono il risultato di un calcolo, che in sostanza è legato all’aumento del valore del titolo dell’azienda in seguito alle decisioni del manager. Questo ha senso, ma induce i vertici a fare scelte di breve periodo per aumentare il valore nominale e scoraggia gli investimenti più costosi ma, forse, davvero necessari e innovativi. Questa è una conseguenza. Per questo dico ci vogliono più regole. Ma è tardi e, secondo me, presto ce ne accorgeremo.Intende con un’altra crisi?
Sì. Si è fatto troppo poco, e quel poco che si è fatto è stato solo per limitare i danni. La questione è ancora aperta.Si è rotto il collegamento tra produttività e salari. Più e meglio si produceva e più questi aumentavano. Con la globalizzazione non è più così
È comunque un’operazione difficile, soprattutto perché le regole sono locali e la finanza è globale.
Già. Si pensi alla questione delle politiche fiscali. Mi sembra molto, molto arduo trovare un regolamento che valga ovunque e che sia fatto rispettare ovunque. Credo che sia inevitabile che delle scappatoie ci saranno sempre. È difficile anche per quanto riguarda il sistema bancario: le diverse condizioni corrisponderanno a diverse decisioni. In un quadro economico frammentato è arduo anche chiamare a un accordo Stati e Paesi diversi. Certo, gli accordi ci possono essere e ci saranno sempre. Il difficile sarà trovare qualcuno, dietro alle banche, che li faccia rispettare.Intende una presenza politica?
Sì.Come giudica allora, sotto questa luce, la politica monetaria attuata da Mario Draghi?
Ha fatto quello che qualsiasi banchiere centrale avrebbe fatto al suo posto. Anzi, visto che è molto in gamba, lo ha fatto anche meglio di come avrebbero fatto altri. Detto ciò, il Quantitative Easing è stata una mossa molto pericolosa. È difficile immaginare come se ne verrà fuori: prima o poi i tassi saliranno, devono salire. E avranno un effetto potente di destabilizzazione sulle economie locali.Ha sbagliato, allora?
No. Draghi, come gli altri banchieri centrali del mondo, si muove in un mondo del tutto nuovo, una situazione senza precedenti. Non ci sono esempi dal passato da cui trarre insegnamento, non ci sono casi simili cui confrontarsi. È una terra incognita e ogni passo va soppesato. Ma l’eurozona è davvero in difficoltà.Reggerà?
Credo di no. Esiste un nucleo centrale, quello composto dai Paesi nordici – Germania, Olanda, per capirsi – che ha le possibilità di mantenere vivo il progetto dell’Euro. Il problema, però, è la Francia. È in cattive condizioni, non riesce a trasformarsi, non è in grado di fare riforme adeguate. La previsione è che, a lungo andare, l’eurozona dovrà rompersi. Non è chiaro in quante parti. Forse due, con la divisione tra Paesi del nord e Paesi del Sud. Forse in tre: Paesi del Nord, Francia e Italia-Spagna. Non sarà un momento facile.La Gran Bretagna, che nell’euro non è mai stata e ora non è più nemmeno nell’Unione Europea, starà a guardare. Come se la sarà cavata nel frattempo?
Non credo male. Il sistema finanziario inglese è molto flessibile, per cui in un arco di cinque-dieci anni avrà reagito. Vedremo come. In ogni caso, penso che, nonstante le previsioni, l’Europa non beneficerà della Brexit, almeno non nei termini di attrazione delle grandi aziende della City. Preferiranno andare a New York, anziché a Francoforte.