Il post-truth non è una creatura di Donald Trump. Non è un arnese dei gruppi populisti di estrema destra. Non è nemmeno un’arma di disinformazione di massa dei siti non verificati. Non è, infine, un modo di vivere di gente povera e ignorante (perlopiù anglosassone). Il post-truth, parola che è perfino stata scelta dal dizionario Oxford come simbolo del 2016, è un’invenzione della sinistra liberal. Partorita in ambienti accademici e portata in gloria dalla triade Clinton (Bill) – Blair – Obama. Sorpresi, eh?
Lo spiega molto bene questo articolo di Andrew Calcutt, pubblicato su The Conversation. Lui è lecturer di giornalismo e media alla University dell’East London e segue la questione del post-truth da tempo. Si può dire da quando è nata, cioè circa 30 anni fa (insomma, non con la candidatura di Donald Trump). “La parola post-truth è associata alle stravaganti e false affermazioni di Trump in campagna elettorale e, in maniera più larga, comprende anche la mentalità delle persone che lo hanno votato lo stesso”. Ma “la responsabilità è di tutti quei professionisti della middle class che le hanno preparato il terreno”. Sono “accademici, giornalisti, cosiddetti creativi e perfino trader finanziari. Compresi i politici del centro-sinistra”.
Se ora si dice post-truth, viene subito in mente The Donald: è “il prodotto del populismo, il figlio bastardo di ciarlatani che parlano alla pancia. È anche il disprezzo esplicito per cioè che è vero”. Ma una volta, e nemmeno tanti anni fa, il post-truth era una cosa bellissima, un’invenzione geniale di accademici ribelli di sinistra che, dopo la fine delle grandi narrative del ’900 (si dice così, no?) era giunta a sancire che “la verità (truth) era un concetto superato”, e le persone intelligenti “non potevano più dargli fede”. La verità universale, sostenevano, “va respinta perché è un concetto ingenuo e repressivo. La nuova ortodossia permetteva solo tante verità (truths): al plurale, personalizzate, relativizzate”. Come avrà già capito il lettore accorto, è una delle chiavi di volta del post-modernismo.
Tutta questa nuova intelligenza si è estesa a tutti i comparti intellettuali della società. Non ci sono solo universitari post-veritieri, ma anche giornalisti post-veritieri: proprio a loro dà fastidio l’ormai anacronistica e scomoda nozione di verità dei fatti. Tutta la realtà va raccontata dal punto di vista, da una posizione personale, da una visione relativa. Giornalismo soggettivo, insomma. Ma non erano i soli: intorno a loro cresceva tutta l’industria del branding, dei cosiddetti “intangibles”, delle “industrie creative”, in cui il pensiero magico diventava, se ben manipolato, uno strumento per far soldi. Conta il brand (cioè quello che si dice di una cosa) più della cosa stessa. Il distacco dalla realtà per immergersi un mondo di sogni si rifletteva nella new economy, nel managerismo, nella cultura della promozione e delle public relation. Tutto bello, tutto nuovo, tutto post-truth.
Ma la rivoluzione post-truthista non si ferma qui: arriva anche alla politica. È il punto più delicato della faccenda. Il primo responsabile è Bill Clinton, “che dà inizio alla trasformazione della politica in uno “show di inclusività, messo in scena in una serie di esperienze nazionali condivise. In Inghilterra lo fa Tony Blair, quando si pone in prima linea nella reazione pubblica alla morte della principessa Diana”. Da manuale: è un fatto nazionale condiviso messo in scena con la regia di un leader politico. È l’epoca della politica degli spin-doctor, delle verità utili, della guerra in Iraq e delle prove fabbricate per renderla digeribile (anche questo post-truth?). I fatti erano un’opinione valida come tutte le altre.
“L’arte del governo viene ridotta a una forma di managerialità basata su prove di efficacia”, come fanno in medicina, spiega. E i responsabili sono Blair, Clinton e Obama: “la politica diventa a) esperienza culturale e b) espressione di buona managerialità”. L’ideologia, le idee e i fatti sono lasciati fuori dalla porta. I danni culturali di questa politica, sostiene Calcutt, sono tantissimi: l’adozione delle “prove di efficacia” come bussola nelle scelte politiche è la strada maestra per l’ingegneria sociale, per la fine del dialogo e dell’ascolto degli elettori, e infine per la nascita di un profondo scontento nei confronti degli esperti.
Ecco, se la gente non ascolta più gli esperti e vota Trump è perché gli esperti hanno sbagliato e non hanno mai pagato. È perché la classe politica ha venduto una policy del sogno, fondata su parole chiave belle e vuote (Change, ad esempio) e perché, per rifiutare il concetto troppo restrittivo di “verità”, ne hanno inventate tante, smantellando uno dopo l’altro tutti i punti di riferimento fino ad allora riconosciuti, che non fossero un continuo riconoscimento della diversity – ma senza dare al popolo quello che la politica deve fare: benessere e speranza. Adesso, purtroppo per loro, la verità che non piaceva a nessuno è tornata dall’aldilà. Ed è cattivissima.