Che quello nei call center sia un lavoro diventato sempre più a rischio lo hanno dimostrato i licenziamenti annunciati e messi in atto in sempre più aziende negli ultimi anni. Ultima e particolarmente importante per dimensioni è stata quella di Almaviva, dove una lunga mediazione da parte del governo tra società e sindacati ha portato al risultato minimo di un rinvio di qualche mese dei tagli. Ma se in Italia il dibattito sul lavoro nei call center è rimasto concentrato sulle delocalizzazioni dei servizi, altrove si è spostato su uno scenario più inquietante: una riduzione secca del personale causata dalla tecnologia, e in particolare dalla Robotic Process Automation, nota con la sigla di Rpa.
Il dibattito è particolarmente acceso, non a caso, nei luoghi in cui più si è delocalizzato. A lanciare il sasso nello stagno è stato, nel febbraio 2016, un articolo dell’Economist (The end of the line) da Manila, nelle Filippine. Nelle prime pagine del reportage si descrivevano le condizioni di vita, in chiaroscuro, dei lavoratori dei call center, ben 1,2 milioni (che servono soprattutto clienti statunitensi) per un apporto al Pil del Paese di ben l’8 per cento. Ma sono stati gli ultimi paragrafi a generare una ridda di reazioni: quelli in cui si presentavano i progressi sul fronte dell’intelligenza artificiale e del cognitive computing applicati all’assistenza clienti, citando i casi delle società britanniche Blue Prism e Celaton. La conclusione, affidata a Sarah Burnett, un’esponente della società di Everest, è che la maggior parte dei lavori basilari nei call center è destinata a svanire. Ci sarà ancora bisogno di lavoratori nei call center, ma per ruoli sempre meno ripetitivi. Serviranno a convincere i clienti a comprare altri prodotti e servizi e a risolvere problemi complessi. In altre parole, ci sarà bisogno di meno persone ma molto più preparate. Una prima risposta è arrivata, sempre nelle Filippine, dal presidente dell’associazione di categoria, Benedict Hernandez, che al Wsj ha spiegato come già oggi solo il 60% del lavoro in outsourcing nel Paese sia basato sul telefono e che sempre più si sta spondando sulla gestione dei contenuti dei siti e sui dialoghi via chat.
Partendo da queste considerazioni, in altre parti del mondo in cui si è molto delocalizzato, come i Caraibi e l’America Latina, si è acceso il dibattito sulla necessità di incrementare le competenze dei lavoratori prima che l’automazione li renda facilmente sostituibili. Un dibattito attizzato anche da dichiarazioni incendiarie come quelle di David Thodey, l’ex Ceo della principale società di telecomunicazioni australiana, la Telstra, il quale alla fine del 2014 preconizzò la fine del lavoro nei call center entro cinque anni. Si trattava però di un modo per giustificare grandi delocalizzazioni dei servizi di assistenza ai clienti e non bastò a salvargli il posto, perso pochi mesi dopo.
La maggior parte dei lavori basilari nei call center è destinata a svanire. Ci sarà ancora bisogno di lavoratori nei call center, ma per ruoli sempre meno ripetitivi. Serviranno meno persone ma molto più preparate
Eppure, la tendenza non andrebbe sottovalutata e per rendersene conto basta guardare all’esperienza della società di telecomunicazioni statunitense Sprint. L’azienda ha annunciato all’inizio del 2016 il taglio di 2.500 lavoratori dei call center. Non si è trattato di uno spostamento di lavoratori ma di una riduzione secca a seguito dello sviluppo di una app di auto-aiuto per le richieste dei consumatori. La “Spint Zone App” permette di rispondere a compiti basilari, come la richiesta di fatture, pagamenti e il controllo dell’aggiornamento dei dispositivi. La decisione, spiegò Tech News Today, era stata presa in risposta a un trend che evidenziava come i clienti preferissero cercare le soluzioni online per le richieste di customer care, piuttosto che attraverso una chiamata.
Che la dinamica sia sotto osservazione anche in Italia lo ha fatto capire l’intervento di un dirigente di una società telefonica mobile durante un convegno sul retail non-food, a Milano, lo scorso giugno. La sostanza dell’intervento era che il numero di contratti siglati attraverso i call center era già crollato negli ultimi due anni, dopo lo sviluppo di un sito web e di un’app molto più efficaci. La previsione del dirigente era che nel giro di un paio d’anni il lavoro dei call center si sarebbe concentrato sull’assistenza ai clienti e su chiamate ai consumatori molto più mirate, invece che sulle sempre meno efficaci (e fastidiose) telefonate a tappeto a casa delle persone.
La volontà da parte dei clienti di ricorrere a soluzioni self-service online è stata d’altra parte descritta, dalla società di ricerca Forrester, come il trend numero uno in una recente indagine sulla customer care. Unendo una tendenza che parte sia dall’offerta, cioè dalla tecnologia, che dalla domanda, la società di ricerca Gartner ha previsto già nel 2011 che nel 2020 i consumatori gestiranno l’85% dei loro contatti con le aziende senza interazioni con esseri umani.
La società di ricerca Gartner ha previsto che nel 2020 i consumatori gestiranno l’85% dei loro contatti con le aziende senza interazioni con esseri umani
Ma quanto potrà spingersi in avanti la tecnologia e quanto sarà in grado di sostituire le persone? In un recente studio chiamato “Tapping into the Transformative Power of Service 4.0”, la società di consulenza The Boston Consulting Group ha immaginato questa scena. Paul, un cittadino inglese che è appena andato a vivere a Firenze. Quando entra nel suo nuovo appartamento, per attivare il telefono e il servizio Internet attacca il modem a una presa. Cinque minuti dopo riceve una chiamata dal suo operatore telefonico. All’altro lato c’è Anna, che chiede a Paul di confermare che si è trasferito a quell’indirizzo. Avuta la conferma, Anna informa Paul che in giornata riceverà un nuovo modem per navigare con più banda. L’operatrice del call center gli offre anche di comunicare i nuovi dati alla banca e, vedendo che il cliente accetta di nuovo, decide di fare un altro passo: gli offre un nuovo piano telefonico che più si adatta alle sue caratteristiche di consumo. Questa volta Paul è riluttante e allora Anna offre un periodo di prova gratuito. Affare fatto, la conversazione, avvenuta in inglese, è conclusa. C’è però un dettaglio: la chiamata è avvenuta tra Paul, una persona in carne e ossa, e Anna, un software che si comporta come un operatore virtuale di un call center. Il programma capisce il linguaggio naturale e il significato che una persona vuole comunicare, può reagire alle emozioni di un cliente, parlare in 30 lingue. E, come un lavoratore umano, può imparare a risolvere problemi e applicare gli insight che ottiene per definire la migliore linea di azione. La storia di Paul e Anna non è reale ma è verosimile, perché l’automazione sta facendo passi da gigante anche sul fronte del riconoscimento vocale e, in senso più lato, della “customer care”. Lo studio non nasconde l’enorme impatto che tutto questo provocherà sui posti di lavoro nei servizi.
La buona notizia, per i lavoratori, è che i manager chiamati a investire sulla tecnologia sono ancora indecisi su quale scegliere e su quali vantaggi potranno ottenere, come spiega un’indagine di McKinsey. Tra le tante scelte ci sono le tecnologie che automatizzano completamente le transazioni a bassa complessità; quelle che integrano con strumenti digitali le transazioni più complesse (dove dunque rimane l’intervento umano); e quelle più ambiziose che puntano ad automatizzare interazioni altamente complesse. La volontà, tuttavia, è quella di investire pesantemente.
Come mostra una presentazione della società britannica Blue Prism, nelle telefonate, per esempio per l’attivazione di un servizio telefonico, ci potrà anche essere un’integrazione tra una prima parte del processo, nella quale ci sarà un intervento umano, e una seconda parte, più routinaria, affidata a un software. Uno studio del gennaio 2016 (ripreso da Repubblica) di Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, ricercatori a Oxford, aveva messo i lavoratori a rischio di perdere il posto a causa di un robot su una scala da 0 a 10. Il lavoro più sicuro era quello del fisioterapista, fermo a 0,03. L’ultimo era quello di operatore di call center. Il punteggio era quasi una condanna: 9,9.
https://www.youtube.com/embed/1SximAg9t4w/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT