Ho avuto il piacere, negli anni, di curare la pubblicazione e la diffusione in Italia di fortunati libri, tra cui il Dilemma dell’innovatore di Clayton Christensen (Franco Angeli, 2001). Nella postfazione che scrissi allora facevo emergere come anche nell’era di Internet ci si pone il dilemma che Clayton Christensen descrisse, riguardante le conseguenze di quel che lui chiama le innovazioni delle tecnologie “di sostegno” e quello che chiama le tecnologie “di interruzione”.
Come ricorda Hans Magnus Enzensberger: «Quando Gutemberg creò le sue lettere mobili, non pensava affatto alla distribuzione massiccia di materiale pubblicitario e neppure ai giornali scandalistici. Voleva soltanto stampare una bella Bibbia. Sembra che quando Bell ebbe l’idea del telefono, pensasse a come risolvere il problema dei deboli d’udito e Etienne-Jules Marey sviluppò la sua camera per esaminare le sequenze dei movimenti sugli animali, la sua mente era lontanissima da Hollywood. Come aveva ricordato Peter Drucker in una sua intervista del 2000, Business 2.0, non oltre il 10/15% delle innovazioni sviluppa i desideri dell’inventore e che il processo di “distruzione creativa” di una società deve essere continuo e organizzato per riuscire, spesso i prodotti migliori sono frutto di miglioramenti successivi di quelli già esistenti e non dell’innovazione pura.
Attualizzare il concetto è quanto di più facile, perché se è vero che Clayton Christensen introdusse il termine disruptive innovation nell’articolo Disruptive Technologies: Catching the Wave (Harvard Business Review) scritto insieme a Joseph Bower già nel 1995, è a tutt’oggi presente nelle nostre realtà organizzative.
Non oltre il 10/15% delle innovazioni sviluppa i desideri dell’inventore
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