Uno va al cinema a vedere un film di fantascienza, ci investe i suoi quasi dieci euro e giustamente si aspetta di assistere a un grande spettacolo pieno di speculazioni sul futuro, di assistere a delle ingegnose elucubrazioni sul nostro rapporto con la tecnologia o, quantomeno, di vedere qualche esserino strano, qualche alienuccio, buono o cattivo che sia.
Poi, però, quell’uno va a vedere Arrival, che da quanto ha letto in giro è un film che parla proprio di uno sbarco alieno sulla Terra, e dentro non ci trova nulla di tutto questo, perché Arrival è un film ambientato in un tempo non specificato ma sostanzialmente identico al nostro presente; è un film in cui la tecnologia più avanzata che viene utilizzata è un tablet ed è un film in cui gli alieni, nei pochi momenti in cui si vedono, sono sagome confuse nella nebbia a forma di nocca di mano gigante.
Eppure, Arrival è un grandissimo film di fantascienza e non solo per gli amanti del genere. È anche un film da vedere assolutamente, da tutti, e su cui tutti devono ragionare, molto di più di quanto abitualmente facciamo di fronte a un film di fantascienza. Perché? Perché Arrival è un film che oltrepassa il proprio genere e lo realizza praticamente nella sua negazione. Ci mostra la Luna — gli alieni — con il dito, ma quello che vuole raccontarci non è né la Luna, è il dito. Anzi, prima ancora del singolo dito, è la mano e il braccio che Villeneuve vuole illuminare: l’Umanità a cui quel dito archetipico appartiene.
La storia tutto sommato è semplice: da un giorno con l’altro 12 gigauova si materializzano sul nostro pianeta. Dopo il primo contatto l’esercito americano chiede aiuto alla dottoressa Louise Banks, linguista, e al dottor Ian Donnelly, matematico. Il loro compito? Cercare di stabilire un contatto, di capire che diavolo ci fanno qua, chi sono, cosa vogliono da noi? Gli americani non sono gli unici a cercare il contatto. Contemporaneamente anche negli altri 11 siti altri scienziati e altri linguisti di tutto il mondo ci provano.
Una cosa Villeneuve la mette in chiaro fin da subito e lo fa utilizzando una regia in prima persona, eccedendo in fuori fuoco, facendoci scoprire le cose con la curiosità mista a terrore di Louise. È un’ottima strategia, sia dal punto di vista narrativo che visivo, ma soprattutto è utile, perché mette in chiaro fin da subito che non è la Luna il punto dove guardare. Non sono gli alieni quel che ci deve interessare, ma noi: il dito, per l’appunto. Il colpo di genio di Villeneuve è quello di fare di quel dito la fantascienza. E infatti lo quello spettatore esigente che voleva la fantascienza, se guarda bene, li trova tutti gli elementi del genere: gli alieni, le elucubrazioni su noi e la tecnologia, le speculazioni sul futuro. Solo che non sono esattamente dove lo spettatore si aspettava.
Gli alieni, per esempio, non sono mica quelli che arrivano, ma quelli che c’erano già: gli uomini. E se sono alieni lo sono tra loro, nella loro egoistica incapacità di fidarsi, di collaborare, ma prima di tutto nella loro incapacità di comunicare. Anche la speculazione sul futuro dell’uomo e della tecnologia c’è, solo che non riguarda né pazzeschi e visionari mezzi di trasporto in grado di farci superare la velocità della luce, né tecnologia in grado di farci vivere in eterno. No, la speculazione fantascientifica riguarda qualcosa di molto più profondo di due astronavette o di una banale eternitucola: al centro di Arrival infatti c’è la più grande tecnologia che l’uomo abbia mai inventato, una tecnologia che oggi, proprio nel momento di massima potenza, è alle corde: il linguaggio, la comunicazione.
E qui Arrival fa un bel colpo: esce nel momento perfetto, nel pieno del’uragano “post-truth”, ovvero questa grottesca tempesta di merda che ci stiamo raccontando essere un dibattito intellettuale sul linguaggio e sulla comuniucazione, ma che in realtà è solo una gigantesca e delirante pantomima, un dibattito tra sordi in cui nessuno crede più a nessuno, in cui la posizione di farfallina87 sui vaccini ha lo stesso valore di quella enunciata in un articolo del Lancet o di Nature.
Anche per questo Arrival è un grandissimo film di fantascienza, un oggetto narrativo potente al pari di quel capolavoro di 2001 Odissea nello Spazio. Ha un unico grave problema, ed è che purtroppo Villeneuve non è il nuovo Kubrick. E purtroppo, come anche Nolan prima di lui in Interstellar, anche il canadese non ha abbastanza fiducia nel pubblico (o coraggio) per metterlo in difficoltà, per provare, almeno per una volta, a seguire le orme di Stanley Kubrick e lasciare veramente il segno. È un peccato, perché bastava soltanto un minimo di fiducia e di coraggio in più; bastava togliere tre minuti scarsi, gli ultimi, tre minuti in cui, con due sciagurate battute buttate in una scena patetica, Denis Villeneuve e Eric Heisserer (lo sceneggiatore) tentano, senza alcun valido motivo, di buttare tutto in vacca.