Il primo ministro britannico Theresa May ha finalmente trovato la sua definizione di Brexit. Dopo i primi sei mesi di apparente confusione ed incertezza in quel di Downing Street, mesi duranti i quali il leader dei conservatori ha ripetuto il suo mantra «Brexit means Brexit» senza soffermarsi sul significato concreto della parola Brexit ed i britannici hanno dibattuto sull’uscita soft oppure hard, il premier di Londra ha presentato ieri la sua versione dell’uscita dalla Gran Bretagna dall’Unione Europea: la «clean Brexit», quella di cui parla un documento pubblicato dal think-tank Policy Exchange, firmato dall’ex cancelliere della signora Thatcher, Lord Nigel Lawson, gran sostenitore dell’uscita più liberale, opposta all’approccio protezionistico bensì favorevole all’apertura della Gran Bretagna al mondo.
Per dirla con l’ormai storica copertina pubblicata nella settimana del voto referendario dello scorso giugno dal magazine conservatore The Spectator, «Out – and into the world». Eccola la versione gentile della «hard Brexit»: non c’è uscita se si resta nel mercato unico, ha detto May. Ed il Regno Unito sta uscendo e di conseguenza il passaggio da «membership» con l’UE a possibile ed auspicata «partnership» nel segno della tradizione e della storia comune: ponti tagliati con la Corte di giustizia dell’Unione Europea per ridare supremazia alle leggi britanniche, con il mercato unico per negoziare accordi con i singoli paesi del mondo o con i diversi blocchi commerciali, con l’unione doganale per mantenere la promessa del fronte del Leave in campagna elettorale di riprendere il controllo dei confini nazionali e, di conseguenza, dei flussi migratori provenienti dal continente.
Nonostante l’escamotage lessicale della «clean Brexit» dalle parti di Londra sembra rimanere incertezza sul futuro e sulle prossime mosse. Intervistato per il quotidiano britannico conservatore The Times da Michael Gove, giornalista e deputato leader della campagna per l’uscita, il presidente statunitense eletto Donald Trump si è detto pronto ad un accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito in tempi rapidi. Può essere questo un asso nella manica di Theresa May da giocare durante i negoziati con l’Unione Europea: il Regno Unito non è solo nella battaglia della Brexit, bensì è sostenuto dalla prima potenziale mondiale.
Ma questo affidamento ai cugini d’oltreoceano può rappresentare anche una debolezza di Londra, un segnale dello smarrimento delle sue élite. In particolare di quella conservatrice che si trova a dover guidare il paese dopo averlo portato allo scontro per un regolamento di conti tra i due amici-nemici, David Cameron, ex primo ministro, e Boris Johnson, ex sindaco di Londra, ex compagni ad Oxford divisi dalle ambizioni comuni: il secondo voleva soffiare lo scettro di premier al primo. Cameron aveva promesso il quesito referendario sull’Unione Europea e, convinto più dai sondaggi che dalla sua visione, si era schierato per il Remain contro il rivale Johnson, notoriamente euroscettico.
Il presidente statunitense eletto Donald Trump si è detto pronto ad un accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito in tempi rapidi. Ma questo affidamento ai cugini d’oltreoceano può rappresentare anche una debolezza di Londra, un segnale dello smarrimento delle sue élite
Risultato? Dalle urne è emerso un paese non più diviso tra destra e sinistra ma, come ha scritto il settimanale progressista NewStatesman, per classi sociali ed economiche. In pochi giorni i protagonisti di quel referendum hanno abbandonato la scena. David Cameron si è dimesso e lo stesso ha fatto Nigel Farage, leader del partito indipendentista Ukip e grande protagonista della campagna referendaria. I due volti noti di VoteLeave, la campagna ufficiale per l’uscita, ossia Boris Johnson e Michael Gove si sono accoltellati a vicenda nella corsa alla leadership del partito e alla guida del paese. Così nessun “brexiteer” si è trovato a traghettare la nave britannica fuori dai porti europei: è toccato alla “remainer”, seppur critica, Theresa May prendere le redini del paese.
Un modello da imitare, una democrazia solida e capace di resistere ai totalitarismi: ecco ciò che sembrava essere la Gran Bretagna. Ora, invece, con le élite in fuga da un paese che arde tra le fiamme del populismo, diversi nodi vengono al pettine. Tanto che tra gli stessi conservatori è iniziato un certo lavoro di revisionismo del recente passato cameroniano. Andrew Mitchell, ex segretario per lo sviluppo internazionale, ha attaccato la politica estera che May ha ereditato dal suo predecessore sostenendo che il supporto “contraddittorio e incoerente” della Gran Bretagna alla coalizione a guida saudita che in Yemen combatte contro i ribelli Houthi sostenuti dagli sciiti rischia di causare l’aumento del rischio di attacchi terroristici su suolo Britannico. Ed un’altra bastonata a David Cameron arriva da un suo compagno di partito il conservatore Julian Lewis, ex capo del Defence Select Committee, che, citando l’intervento in Libia contro Gheddafi nel 2011, ha sostenuto che l’ex primo ministro non ha le competenze per diventare capo della NATO.
Per quanto possano essere criticabili alcune scelte di Cameron, sembra in atto un’operazione di revisionismo del passato recente dettata dalla volontà di voltare pagina con fretta ma senza freddezza, sintomo del buio della classe dirigente britannica, più interessante a “farsi le scarpe” da sola che a guidare il paese in questa situazione straordinaria, tra Brexit e divisioni interne.