Quando un illustratore disegna un ritratto, c’è un momento preciso, un singolo istante condensato in un tratto, uno solo, che trasforma quello che fino a quel momento era un insieme di tratti quasi casuali sul foglio bianco nell’immagine di una persona. Quel tratto è sempre un dettaglio. Che sia un’ombra, una ruga d’espressione, un neo, una piccola imperfezione del naso o un’inclinazione dello zigomo, quel dettaglio, che preso da solo sarebbe un aspetto irrilevante, diventa decisivo per la credibilità di tutto il ritratto.
Anche nella narrativa succede qualcosa di simile. Che cosa rende una storia credibile? Qual è l’ingrediente che fa in modo che, ascoltando, guardando o leggendo una storia, ne siamo in pochi minuti inglobati? Cos’è che fa scattare in noi quello stato della percezione che chiamiamo “sospensione dell’incredulità” e che ci permette di godere della narrativa, indipendentemente dal medium che la porta fino a noi? In molte scuole di scrittura creativa, così come i fanatici della narratologia, probabilmente vi risponderebbero parlando di strutture narrative complesse, di istanze narranti, di coordinate spaziotemporali. Altri magari penserebbero alla forma, allo stile, al linguaggio.
La verità, però, è un’altra. E sia la struttura interna che la forma c’entrano poco con questo aspetto quasi magico di ogni narrazione, un aspetto talmente importante che, quando una storia ne è priva, che sia su carta, su schermo o in parole recitate al vento, resta piatta, inerme, come una mina disinnescata, incapace di colpirci e di attrarre la nostra attenzione. Una storia, per attivarsi nella mente del lettore, ha bisogno di profondità e il modo più semplice per crearla, questa profondità, come per l’illustratore di cui sopra, è aggiungere i dettagli.
Perché questa premessa teorica? Perché questo è esattamente il baricentro del nuovo libro di Paolo Sorrentino. Il regista napoletano premio Oscar, dopo aver provato l’ebbrezza della regia in una serie televisiva, è tornato alla letteratura con un libro molto particolare, una raccolta di ritratti, costruito in collaborazione con il fotografo Jacopo Benassi e intitolato, senza alcuna concessione al caso, Gli aspetti irrilevanti, un libro che riesce ad essere contemporaneamente un libro molto scarso a livello letterario e un libro potentissimo dal punto di vista narrativo.
Quando si mette a scrivere libri, Paolo Sorrentino è la dimostrazione di come si possa avere un fiuto pazzesco per le storie, per come si plasmano e si raccontano sullo schermo, ma, alla stesso tempo, di come si possa contemporaneamente avere molto poca sensibilità letteraria, scivolando spesso su facili frasi da maglietta, inciampando in orribili cacofonie, ammicchi in camera e oscillazioni quasi casuali di narratori.
Eppure, nonostante tutto, al netto di tutti gli scivoloni, l’operazione di Sorrentino è affascinante. E lo è proprio per quegli aspetti irrilevanti, dettagli e frammenti di vita che rendono ognuno dei personaggi di questa galleria di ritratti capace di uscire dalla pagina e reclamare il proprio posto nel mondo. Dettagli che la sensibilità di Sorrentino riesce a scovare nelle pieghe delle vite dei suoi personaggi e che riescono a compensare agli scivoloni ingenui e alle strutture spezzate e incasinate di Sorrentino e rendono questo libro, in fin dei conti, molto riuscito.
Scrivere racconti, dicevamo qualche giorno fa su queste stesse pagine, è una missione difficile, molto più difficile di scrivere romanzi. Ecco, in questa peculiare classifica in ordine di difficoltà, all’interno dell’universo Racconti, il genere Ritratto si situa in alto, tra i generi più impervi e rischiosi, ma, contemporaneamente, anche tra quelli più goduriosi e affascinanti, che vanta tra i suoi discepoli gente come Jorge Luis Borges (strepitosa dq questo punto di vista la sua Storia universale dell’infamia) o Marcel Scwhob (altrettanto strepitosa la sua raccolta di Vite immaginarie).
È da questo punto di vista che questo libro è riuscito. Perché è dannatamente affascinante osservare le vite degli altri. E lo è ancora di più quando a portarti per mano in questo atto di estremo voyeurismo è uno come Paolo Sorrentino. Seguire il suo sguardo da voyeur significa avere l’impressione di entrare nella bottega di un orologiaio e provare la sensazione, almeno per un istante, di aver capito dove bisogna andare a guardare per trovare quegli aspetti che ai nostri occhi sono irrilevanti ma che, paradossalmente, sono l’interruttore che attiva ogni personaggio e ogni storia.